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Anno edizione: 2011
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Ma è giusto dare la facoltà di poter recensire la scrittura di Citati? A mio modesto parere, no. In taluni casi - Citati è tra costoro - sarebbe meglio leggere e astenersi dal criticare, perchè la competenza che vantava Citati credo sia inarrivabile. Anche io guido la macchina ma non sono Hamilton e, di conseguenza, non mi permetterei mai di giudicare la qualità della sua guida.
Il libro è bellissimo e Citati un grande scrittore.Una considerazione: all'ostinata ricerca della felicità da parte di Leopardi, che sa essere irraggiungibile, preferisco la saggezza di Epitteto (Leopardi tradusse il "Manuale"), che pure non dà la felicità, ma dà la tranquillità dell' anima, il che non è poca cosa. Da notare che Citati definisce Leopardi un depresso psicotico.
Pitro Citati e' un autore che si occupa,con vera passione e grande competenza filologica di altri autori.Pochi in verita'.E,questo libro segna il passo su di un autore,per definizione, controverso e complesso,a tratti,come chi lo ha studiato bene sa' bene,sfacciatanmente, contraddittorio.Nel vero senso del termine. Citati ne analizza l' Opera in ogni suo aspetto piu' oscuro e con l' esattezza che gli e' propria,ne stigmatizza i contenuti oggettivi supportandoli alla ricca bibliografia che chiude il volume e che altro non e' se non un invito ad un approfondimento specialistico.Ben poco vi e' taciuto della produzione del poeta marchigiano, mentre la sua vita e' un po' come un incipit messo all' inizio di ogni Capitolo per poi perdersi con dei cenni sempre piu' sfumati e sempre a cura,o in conto spese,del contenuto poetico del periodo in esame.Periodo sempre ben rappresentato e illustrato.Leopardi e' una remota dittatura che ci e' stata imposta a scuola,ad opera di despoti il piu' delle volte del tutto digiuni degli aspetti che l'amore per un autore richiede e merita.Lontani miglia e montagne dal vero senso della poesia e ligi ad un programma ministeriale,un tempo si diceva cosi',come impiegati del catasto alle prese con le carte dei decimali delle singole proprieta'. Tre settimane Manzoni,due Foscolo,mezza il Parini e due ore a quel tale: minore.Nessuno mai puo' amare un autore se non attraverso una guida vigile e attenta ai percorsi da compiere per raggiungerne il nocciolo della fusione amorosa.Quindi,Beati coloro che hanno avuto un Citati a tracciargli il percorso,amorevole, attento,competente,saggio e paziente verso chi deve,o dovrebbe,apprendere una delle pietre miliari della nostra cultura italiana. Operazione senza traumi,fatta,anzicche' con il bisturi dell' obbligo,con l' imposizione delle mani che sfiorano la mente dell' allievo come una carezza e ne rafforzano l' esistenza in caso di guerra.Guerra da combattere,come diceva Pasolini,con le armi della poesia.
Recensioni
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Frutto laboriosissimo di molti anni di ricerche e letture, il volume di Pietro Citati su Leopardi nasce innanzitutto come una sfida: tracciare un ritratto nuovo del nostro autore moderno di gran lunga più studiato; fissare sulla carta il non lineare percorso di una mente formidabile e infaticabile; insomma: cimentarsi con uno scrittore spaventosamente geniale. Una simile sfida poteva essere sostenuta soltanto in virtù di una profonda affinità elettiva, di un richiamo incoercibile, che Citati avvertì fin dalla prima gioventù, quando, come informa lui stesso, iniziò ad approfondire l'opera di Leopardi.
Ma cosa lega Citati all'oggetto del suo libro? Qual è la tangenza più sensibile tra l'universo intellettuale di Citati e quello leopardiano? In una parola, direi, il modo di leggere. Così recita un passo decisivo di questo volume: "Per Leopardi, leggere era già scrivere, e scrivere era una forma di lettura: i due gesti diventavano lo stesso gesto". Chi conosce, anche superficialmente, le opere di Citati non potrà non ravvisare in questa affermazione la cifra forse più peculiare della sua poetica critica. Come in Leopardi, il quale, il 22 novembre 1820, annotò nello Zibaldone che "per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni dello scrittore", così pure in Citati lettura e scrittura si alimentano vicendevolmente e si ibridano, fino al punto di coincidere. La lettura-scrittura di Citati decripta e trascrive il libro segreto che si cela in ogni capolavoro letterario; cosicché l'opera e la vita di Leopardi, come quelle di Goethe, di Tolstoj, di Kafka o di Proust (per rammentare solo alcuni dei grandi classici cui Citati ha consacrato un volume) possono magicamente (l'avverbio è da intendersi nel senso più intrinseco: si ricordi la centratissima definizione, coniata da Paolo Lagazzi, di Citati come "mago della critica") trasformarsi in racconto, anzi, più precisamente, in mythos (il significato di questo termine greco è, appunto, racconto).
Il racconto leopardiano di Citati inizia "come un'opera buffa" alla Rossini, che, guarda caso, Leopardi amava. Come altro definire, del resto, le disavventure economiche di Monaldo, che dilapidò buona parte del patrimonio dei Leopardi, così da essere costretto a delegarne la gestione alla sua più parsimoniosa consorte, l'austera Adelaide Antici? Se l'inettitudine amministrativa di Monaldo era ben nota, non lo era altrettanto la natura specifica della malattia di Giacomo, che molti, compreso lui stesso, ritenevano l'effetto degli anni di studio matto e disperatissimo; correggendo questo longevo luogo comune, Citati afferma che "Leopardi non diventò gobbo a causa del rachitismo", bensì della tubercolosi ossea, che, insieme a un male di origine assai più oscura, la depressione psicotica, funestò l'esistenza del poeta fin dall'età più tenera.
L'attenzione alla biografia è, si sa, una costante della saggistica di Citati, ultimo erede di Sainte-Beuve; nondimeno questo Leopardi, al pari delle altre grandi monografie citatiane, non è riducibile a una semplice biografia. Il resoconto della parabola esistenziale di Giacomo si intreccia infatti continuamente e inestricabilmente con il commento, spesso molto puntuale, degli scritti di Leopardi. Dimostrando una profonda conoscenza, non solo dell'opera leopardiana e delle sue fonti, ma anche della critica più recente, Citati non manca di fornire contributi esegetici e suggerimenti interpretativi nuovi o stimolanti. Penso ad esempio alle considerazioni sul singolarissimo "rovesciamento della teologia lunare classico-cristiana" attuato dalla scrittura leopardiana; alla lettura ravvicinata dei Canti pisano-recanatesi, e in particolare di un testo meno paludato come Il risorgimento; al capitolo su Il pensiero dominante; o, ancora, alle pagine sull'efferata lucidità d'introspezione di quella straordinaria prosa designata dagli editori come Diario (o Memorie) del primo amore.
Un altro merito da ascriversi al volume di Citati risiede nell'approccio generale al pensiero di Leopardi, e in specie alle meditazioni labirintiche e incandescenti dello Zibaldone. Citati, infatti, al contrario della maggior parte dei leopardisti di ieri e di oggi, non cerca di semplificare in una rigida e forzosa coerenza la trama delle intuizioni zibaldoniane, ma ne accetta le costanti oscillazioni, senza nasconderne le sfumature aporetiche. A Leopardi si addice bene l'acuto aforisma di Nicolás Gómez Dávila: "Per cogliere nel segno è necessario contraddirsi. Perché l'universo è contraddittorio". La stessa idea di natura, in Leopardi, mantiene fino in fondo un carattere, se non contraddittorio, duplice: non è solo "il brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera", ma anche la "lenta ginestra": l'estremo simbolo leopardiano della poesia, che, come mostra Citati, redime la natura, emanando il suo profumo verso il cielo.
Raoul Bruni
Il saggio di Pietro Citati su Giacomo Leopardi muove i primi passi dalle vicende dei genitori del poeta, Monaldo e Adelaide Leopardi. Il primo, che era un uomo inquieto e «casereccio», scrisse una bonaria e divertentissima Autobiografia composta tra il 1820 e il 1830; frustrato nelle sue ambizioni intellettuali, decise di comprare libri e aprire una biblioteca per educarvi i figli. Adelaide Antici, la madre, era una marchesa elegante e austera, una donna di fede devota, ma fredda e avarissima: non usciva quasi mai di casa e per Leopardi appariva come un idolo grandioso, tenebroso e incomprensibile. Quel padre bizzarro e donchisciottesco adorava il figlio e lo tenne legato alle terre e alla casa di Recanati, soprattutto a quella biblioteca che per Monaldo era «il cuore dell’universo». Sin da bambino, a quattro anni, Leopardi con il padre, il fratello Carlo, la sorella Paolina e don Sebastiano Sanchini, nelle prime ore della mattina entrava nella grande e luminosa stanza della biblioteca di famiglia. Ognuno occupava il suo tavolino di studio: Giacomo non voleva che nessun altro vi penetrasse e difendeva gelosamente il suo ambiente. In quegli spazi Giacomo vedeva riflessi l’ordine, l’armonia e il «sistema del mondo». Citati racconta l’infanzia e l’adolescenza del poeta, un ragazzo sensibilissmo e ricco di immaginazione, amante dei racconti e bisognoso delle certezze delle cose comuni, ripetute nel tempo. «La felicità di Leopardi ragazzo era fragilissima: un battito di ali, subito perduto». Poi, tra i sedici e i diciannove anni, l’insorgere della malattia, che Citati tratta molto seriamente: lo scrittore soffriva di tubercolosi ossea, un morbo che poteva prendere molteplici forme. A questa si aggiunse la sofferenza di una psicosi maniaco-depressiva, sempre però dettata da cause fisiche, organiche. Leopardi si sentiva colpevole di questa sua fragilità ossea, del suo non crescere più, delle due grosse gibbosità che si sviluppavano sul suo corpo. Egli credeva che la causa fossero gli «studi matti e disperatissimi» dell’adolescenza, mentre non sapeva che la colpa era soltanto della natura.
Malgrado tutte queste difficoltà, Leopardi – scrive Citati - «possedeva un’immensa vitalità, non minore di quella di Tolstoj» e, tra il 1820 e il 1823, chiuso nella biblioteca, scrisse quasi quattromila pagine dello Zibaldone, un’opera non meno immensa di Guerra e pace, nella quale il critico ama immergersi e perdersi. In questa chiave interpretativa lo Zibaldone diviene il grande laboratorio mentale in cui Leopardi esercita la sua modernità. In quelle pagine vi è tutto quello che ha letto e ha pensato, la capacità mimetica dello scrittore di trasformarsi di volta in volta e immedesimarsi nella lettura appena conclusa e la libertà di fuggire, nonostante tutto, dalla prigione di Recanati che il padre gli aveva costruito intorno. Ecco quindi il bisogno di fuga, la narrazione dei viaggi del poeta a Roma, a Pisa e soprattutto a Napoli, che Leopardi amava per la vitalità del suo immenso caos, per il paesaggio del Vesuvio, la costiera, le stelle. E il saggio non tralascia gli amori sognati di Giacomo, gli slanci che nutrì per la lontana cugina Gertrude Cassi, le lettere morbose agli amici Pietro Giordani e Antonio Ranieri, in un’atmosfera sentimentale, dei primi decenni dell’Ottocento, tutta ispirata alle idee di Rousseau.
Pietro Citati ha dichiarato che questo libro lo ha impegnato fino allo sfinimento, perché «capire Leopardi è stato difficilissimo, è stata un’impresa straordinaria che si lega alla sua molteplicità e apparente contradditorietà». E di questa fatica, densa e ricchissima, che ci restituisce l’amore per la letteratura in una delle sue massime espressioni, noi lettori lo ringraziamo infinitamente.
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