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Tutte le donne di Clarice Lispector sono la stessa donna. Magra e nervosa, elegante e sobria, avvezza ai modi e alle convenzioni della borghesia cittadina di Rio, dalla quale non di rado però si discosta per una solitudine più comoda e intensa. Si definisce non bella né brutta, ma sa di poter piacere; ispira, a chi la guarda senza osservarla, una sorta di pietà spontanea e indefinita, o forti impeti di collera, e inquietudine. Spesso starle seduti accanto è irritante. Turba per la sua assenza di forza, e il fastidio sfocia in rabbia per l’ostinazione con cui si mantiene neutra. I lineamenti del viso austeri e sottili, così come il suo corpo esile inadeguato alla maternità, rispecchiano la sua inconsueta attitudine verso il mondo. E torna con insistenza alla mente quel volto – occhi calmi, non grandi ma ben definiti, sguardo fermo, quasi scostante, labbra sottili senza accenno di sorriso, tratti in cui la cura di un’eleganza diafana, evanescente e innata incontra una profondità d’attenzione enigmatica – che di tanto in tanto appare sulle copertine dei suoi libri. Nella mente le immagini e le parole creano un gioco di sovrapposizioni in cui quella pallida bellezza ucraina, sorprendentemente brasiliana, e ogni suo personaggio si compenetrano in un gioco in cui l’inclinazione naturale si confonde con l’unico, denso atto di volontà di tutta una vita: rimanere attenta, lasciarsi raggiungere da ciò che intorno esiste, ascoltare il vibrare della vita dentro di lei. "Mi occupo del mondo" dice la protagonista di Acqua viva (1973; Sellerio, 1997; cfr. "L’Indice", 1998, n. 2). E per ascoltare è necessario fare silenzio. Quest’affinità appare in particolare nei romanzi: l’autrice sembra esplorare diverse combinazioni dove le storie si presentano come varianti, naturali sviluppi di una stessa anima messa di fronte a situazioni differenti in cui gli eventi biografici valgono in quanto circostanze esterne, mentre la vera azione è altrove. Bisogna spostare l’attenzione, imparare a sentire come un ritorno, lasciare riaffiorare i fremiti più intimi, sentire che la vita esiste dentro e fuori fino ad "accorgersi di avere un giorno amato un fiore giallo in un bicchier d’acqua". Così l’insignificante acquisisce risonanza tale da raggiungere una forza a tratti deflagrante e violenta, mentre ci si stupisce della grossolanità di chi vive limitandosi alla cornice. Chi ha scritto di Clarice Lispector si è trovato a sostenere l’esperienza della ricerca di parole utili a definire le dimensioni sfumate e i colori impalpabili; o si va incontro alla frustrazione di spiegare qualcosa che non va capito, ma che si sente come la vibrazione di due anime che comunicano al di là delle parole, o si finisce per parlare come lei. Perché lei ha già detto quanto si poteva dire dell’ineffabile con mirabile esattezza. "Non era usando come strumento qualcuno dei miei attributi che io stavo per raggiungere quel misterioso fuoco soave che è un plasma – anzi, è stato esattamente spogliandomi di tutti gli attributi, e avanzando appena con le mie viscere vive. Essendo giunta a questo, io abbandonavo la mia organizzazione umana – per entrare in quella cosa che è la mia neutralità viva". Fare silenzio è toccare la carne cruda. La fine è la percezione delle profondità insondabili della vita, e la consapevolezza di non poterle raggiungere ce la fornisce l’eco grave e nera che percepiamo essere il (non)limite del viaggio di fronte alla materia così manifestamente impersonale. Mentre, al di là di noi stessi, di quella stessa materia siamo costituiti. "Io sono più forte di me". Fare silenzio è tentare di avvicinarsi al neutro, che è "il dio", con l’articolo che scongiura le tentazioni umanizzanti. Il segreto è l’esplorazione di una maniera di avventurarsi nell’esperienza del neutro, quella condivisa da Daniel e Virginia, fratelli e compagni di giochi nella tranquillità della Granja Quieta, la casa di famiglia, e nei boschi e campi che la circondano. Un cappello che galleggia portato dalla corrente del fiume diventa, alla maniera di Lispector, non il mistero di arcani crimini da risolvere, ma l’evento intorno a cui danzano timori e desideri, dove, attraverso gli occhi di Virginia, vicinanze e solitudini assumono forma. L’affogato è il simbolo del legame intimo che unisce i due fratelli, la misura di un’unicità che sanno di condividere e che altrettanto intensamente svela la distanza che li separa. Comunione profonda – che sta all’origine e non affiora. Quanto possono fare insieme è stare zitti: "E tacquero con tutte le loro forze, gli occhi sgranati e feroci". Poi la bambina guarda il fratello allontanarsi, come se in quell’unico gesto fosse celato tutto il senso della sua vita; Daniel è più forte di lei, sa sopportare la solitudine e può decidere di andarsene, mentre la sorella, immobile, gli occhi fissi su di lui che guarda ormai altrove, cerca inutilmente le parole per chiamarlo. Senza di lui Virginia camminerà da sola, sulla scia di quella stessa libertà istintiva e complicata. La strada è quella di giocare ad agire con distacco, evitando di rimanere in balìa dei sentimenti, evitando la pietà. La paura, che a tratti sovrasta o si dilegua come non esistesse, crea combinazioni audaci e agisce modificando ritmi e modulazioni. Superare i confini della devastante umanità è il mezzo per realizzare il delirio di onnipotenza, perché lasciarsi sopraffare dalle passioni è troppo forte, distoglie dal centro: "Ricordò il pomeriggio con Vicente; la felicità era così violenta e come la sconvolgeva; quegli orribili istanti l’avevano fatta uscire da se stessa, estranea, bizzarra e dislocata nel suo intimo. Sì, si poteva soccombere alla felicità, lei si era sentita così abbandonata; un altro minuto di gioia e sarebbe stata scagliata fuori dal suo mondo da audaci desideri piena di un’insopportabile speranza. No, lei non desiderava la felicità, davanti a se stessa lei era debole, debole, alterata, affaticata; scoprì rapidamente che l’esaltazione la stancava, che preferiva rimanere nascosta in se stessa senza tremare, senza salire". Il segreto diventa la possibilità di uscire da quella debolezza: mentire deliberatamente a Vicente, il suo compagno, non senza rimorsi, provoca attimi di trionfo, così come lasciare il suo nuovo amico Miguel allontanarsi da lei in preda alla paura senza minimamente cercare di trattenerlo accanto a sé, senza cercare di farsi amare. Come, una volta, sotto lo sguardo e il comando di Daniel, Virginia aveva rivelato ai genitori i sotterfugi della sorella maggiore, per una sorta di malignità distaccata, pura, indenne da sentimenti personali e desideri di vendetta. Evitare di percorrere le vie della devastante umanità di Cristo per accedere direttamente alla divinità neutra della materia, nascosta nel passo goffo di una gallina, nella sostanza viscosa racchiusa nella scorza dura di una blatta, nel rotolare inconsapevole di un sasso. Il percorso di una vita e di migliaia di pagine assume la forma di un mistero mai svelato che Virginia porta via con sé, in questo che è il secondo romanzo scritto da Lispector, pubblicato a ventun anni, due dopo lo sconcertante esordio di Vicino al cuore selvaggio (1944; Adelphi, 1987). Altri percorsi simili, altri eventi e riflessioni faranno in seguito da eco a questa stessa modalità. Sempre, incontrando Clarice Lispector, ci si trova davanti alle sue "gioie difficili". È comune a molti la sensazione che leggere le sue parole significhi mettersi a parlare con lei. Bisogna usare la stessa lingua: è necessario, per cominciare, avere familiarità con i terremoti di abitudini e convenzioni, e con i cataclismi che modificano, ampliano e relativizzano i concetti. Essere pronti, ad esempio, a sentire finalmente una vicinanza grande e intima con qualcuno che non sempre ispira simpatia, e che lo fa con lucida intenzione. E ancora, lasciare che attrazione e repulsione assumano sfumature inaspettate, che cambino peso, o addirittura lo perdano del tutto. Nella prefazione a La passione secondo G.H. l’autrice chiede esplicitamente che il suo libro venga letto solo "da persone con l’anima già formata. Quelle persone sanno come l’avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza – e passando talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta". La prova è semplice: se qualcosa non funziona, immediatamente gli occhi trapassano il foglio, il filo dell’attenzione si rompe, ci si annoia davanti a rivelazioni che in altri momenti creano intensa commozione. Una lettura esigente è il prezzo adeguato di fronte ad asserzioni che hanno al tempo stesso il sapore della novità e il dolce gusto di sentir detto quanto semplicemente ci appartiene da sempre ma che viaggia sul filo dell’incomunicabilità e sa ancora di clandestino. A mille miglia dall’ipertrofia di fine millennio, dalle voci sovrapposte e dalle citazioni di citazioni. Per questo i commenti di chi per parlare di Lispector sgrana un rosario di nomi, da Joyce a Woolf a Sartre, suonano fuori luogo. Chi le è stata accanto, come Olga Borelli, sua biografa e amica, dice con cognizione di causa che "la sua lingua era il frutto di una esperienza diretta con se stessa e con il mondo, senza intermediazioni di ciò che si chiama ‘letteratura’", ma leggerne i pensieri "basta" per accorgersi che un patrimonio di buone letture, che peraltro sappiamo parziale e disordinato, non è sicuramente la condizione principale della sua scrittura. A meno di intendere le pagine d’altri come il piccolo fiore giallo, episodi intimi che risuonano e arricchiscono, poi elaborati dalla sensibilità innata che è l’unica causa del suo esprimersi. A chi le chiedeva: "Perché scrivi?" Clarice rispondeva: "Perché bevi?".
recensioni di Milano, E. L'Indice del 1999, n. 10
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