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L' infanzia di Ivan - Vladimir Bogomolov - copertina
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L' infanzia di Ivan
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L' infanzia di Ivan - Vladimir Bogomolov - copertina
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Descrizione


Ivan, un ragazzino che ha perso la famiglia per mano tedesca, fa l'informatore per i russi, attraversando ogni notte le linee nemiche, al di là del fiume. Le sue informazioni sono preziose per lo stato maggiore sovietico, che incoraggia le sue pericolose missioni. La guerra lo ha svuotato lasciandogli solo l'odio. Verrà scoperto e impiccato. Ma l'incontro con Ivan lascerà un segno incancellabile nell'ufficiale che l'ha conosciuto e ne racconta la storia.
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Dettagli

1997
129 p.
9788842805007

Voce della critica


recensione di Bouchard, E., L'Indice 1998, n. 2

La storia è la stessa di quella raccontata da Andrej Tarkovskij nel 1962: un bambino, non ancora un ragazzo, forse undicenne, striscia nell'acqua gelida del Dnepr. La seconda guerra mondiale schiera gli eserciti tedesco e sovietico sulle rive opposte del fiume. Come Ivan sia riuscito a sfuggire al tiro dei cecchini nemici è un mistero che il giovanissimo ufficiale Gal'cev non sa spiegare. Ivan non si fa intimorire dall'interrogatorio e pretende di essere introdotto addirittura presso lo stato maggiore dell'esercito. Pronuncia le "o" come le "a" alla maniera moscovita e sembra nato nella capitale, ha un aspetto deplorevole e maniere arroganti, sostiene di provenire dalla riva opposta e questo non lo rende credibile. Il tenente colonnello, capo della sezione informativa dello stato maggiore, conosce perfettamente il ragazzo e manda immediatamente un'automobile a prelevarlo. Cholin in persona, ufficiale dello stato maggiore, viene a riprendersi il bambino e i due nel rivedersi si abbracciano come adulti, l'ufficiale contempla il piccolo con occhi pieni di entusiasmo. Ivan è quindi una spia, Gal'cev non ha dubbi ora, una spia che può passare inosservata grazie all'età, all'apparente fragilità, una spia che attraversa le acque taglienti del Dnepr senza congelare, che parla gravemente con soldati e graduati.
Gal'cev, l'io narrante, è una figura trasparente; privo com'è di ansie di protagonismo e di convenzionalità militari, si lascia attraversare da considerazioni pacate: dice quel che vede, il sentire è tutto spostato sul lettore. Le tinte sono quelle del bianco, nero e grigio del film di Tarkovskij, senza neppure quegli spazi onirici aperti dal regista. A metà racconto si sa che Ivan è stato nel campo della morte di Trostanjec, che suo padre è stato ucciso il primo giorno di guerra e che la sua sorellina gli è morta fra le braccia. Allo stato maggiore hanno deciso di adottarlo quando la guerra sarà finita e se la madre non si sarà più fatta viva. Gli ufficiali amici hanno cercato di preservarlo dalla voracità della guerra mandandolo all'Accademia militare, ma Ivan è scappato intrufolandosi tra le linee nemiche; lui meglio di un adulto sa mimetizzarsi riempiendo le tasche di grani di frumento e segale, semi di girasole, aghi di pino e abete in numero corrispondente agli armamenti nemici.
"In quel momento mi sentivo quasi la sua bambinaia ed ero disposto a prendermi cura di lui; avrei voluto fargli il bagno con le mie stesse mani, ma non seppi decidermi a farlo; il ragazzo si comportava come fosse solo". Così Gal'cev vede Ivan, concentrato nelle sue ossessioni di vendetta, quindi solo e a tratti consapevole della vicinanza di adulti amici a cui sembrano legarlo improvvisi e forti sentimenti che la guerra può oscurare da un momento all'altro. L'ultima missione di Ivan, di cui abbiamo notizia, viene preparata da Cholin e Gal'cev con ogni cura, ma è il bambino che guida i gesti di ognuno. Attraverso il Dnepr, nel buio, scivolando tra i vapori torbidi, si avvicina il momento dell'ultima separazione. Il lettore sa che il bambino cammina incontro alla morte anche se farà di tutto per evitarla, ma l'impossibilità di un risarcimento anche tardivo lo condanna a uscire dalla vita con un percorso senza sbandamenti, senza paura. Gal'cev non riesce a vedere i vortici e i vuoti nella mente di Ivan, lo conosce da poco e si tiene affettivamente in disparte, forse si sente inadeguato, nota negli altri ufficiali, nei soldati amici una familiarità che a lui non è concessa o che lui non riesce a concedersi. "Anch'io desiderai baciarlo, ma tardai un po' prima di decidermi. Ero profondamente commosso... Prima che mi decidessi a dargli un bacio, scomparve silenzioso nell'oscurità".
Ecco l'ultimo tentennamento di Gal'cev. Per Cholin, per il fedelissimo Katasonicÿ, Ivan è fondamentalmente un bambino; essi sono condiscendenti con le sue ossessioni di vendetta, in compenso riescono a nutrire per lui sentimenti paterni e protettivi. Gal'cev non ci riesce o non può, forse vede in Ivan una creatura mutata dalla guerra dove magia e disincanto non possono convivere o forse tutela semplicemente se stesso rafforzando quell'immagine di buon soldato con cui si descrive fin dalle prime pagine. Quel buon soldato restio alle glorie, agli onori e quindi alle gesta eroiche che esce non illeso ma vivo dal conflitto: lo troviamo a Berlino il 2 maggio, alle tre del pomeriggio nella Prinz-Albrecht Strasse fino a poco tempo prima sede della Geheime Staatspolizei ossia della Gestapo.
Ivan è lì, in un fascicolo con la comunicazione speciale del capo della polizia militare: "Guardava di traverso come un giovane toro, con lo stesso sguardo che aveva durante il nostro primo colloquio nella base, sulla sponda del Dnepr. Sotto lo zigomo, sulla guancia sinistra, si vedeva la macchia scura di un livido". Di Gal'cev sappiamo che gli si è stretto il cuore alla lettura del documento il cui testo occupa interamente la chiusa. Non una parola di commento, ecco di nuovo il buon soldato che sta accovacciato sul cumulo di fascicoli salvati dalla distruzione dei tedeschi in fuga e che di nuovo lascia a noi immaginare i suoi pensieri.
Vladimir Bogomolov, l'autore, è stato, come Gal'cev, ufficiale nella seconda guerra mondiale e ha trascorso tutta la sua vita nell'esercito. Come non notarlo. Eppure, proprio in quel tratto asciutto sta la forza del libro: l'evidenza dei fatti, pur atroci, anche in letteratura spesso non ha bisogno di interpreti.


recensione di Silvestri, S., L'Indice 1998, n. 2

Quando nel 1962 uscì "L'infanzia di Ivan* fu evidente che un nuovo corso stava attraversando il cinema sovietico. In realtà, dopo un lungo periodo di chiusura, l'apertura era favorita dal regime, che dava nuove possibilità di espressione a differenti sperimentazioni e discorsi artistici. Il film di Andrej Tarkovskij si esprimeva con un linguaggio dirompente, onirico e simbolico, applicato alla solida tradizione dei film di guerra. All'Occidente il film piacque tanto da ottenere il Leone d'oro al festival di Venezia, una merce di scambio preziosa per l'Urss che aveva bisogno di mostrare un'immagine culturale in fase di trasformazione.
Un revival dei film di guerra aveva prodotto proprio in quegli anni numerose opere che tendevano a cementare anche le nuove alleanze nello scacchiere capitalistico, ora che il conflitto si era definitivamente allontanato. Ma "L'infanzia di Ivan* non si deve collocare in questa moda, segue altre strade. Tarkovskij parlando anni dopo di questo suo esordio lo relegava nell'ambito delle esperienze scolastiche, logica conclusione degli anni alla scuola di cinema ("tipico film ideato nel pensionato dei Vgik", diceva), tenendo più conto dei condizionamenti che dei campi fino ad allora inesplorati che varcava.
Ivan, che solo nel sogno può volare alto sugli alberi, correre dalla mamma a bere nel secchio l'acqua fresca, giocare sulla spiaggia, essere bambino, nella realtà è un piccolo soldato con missioni speciali da compiere. Striscia nel fango, nuota non per giocare, ma per non farsi catturare, e finisce per essere soltanto un nome nell'elenco delle vittime di guerra. Impiccato, un cappio accanto ad altri. Tarkovskij compie il passaggio da una dimensione all'altra: il sogno, il tempo convenzionale del film, le pagine del romanzo, il tempo reale dello spettatore, con la leggerezza delle analogie, dei simboli cautamente usati e con l'elemento dirompente della sua poetica decisa. Vediamo che Ivan del bambino ha mantenuto qualche ricordo, qualche gioco fatto come in trance. Simula un gioco di guerra in una bellissima scena che costituisce la risposta all'affermazione "la guerra non è una cosa da ragazzi". Ivan non è un bambino, convenzione che nei paesi in guerra non ha più nessun senso, ha superato l'età infantile con l'orrore dei campi della morte e con l'allenamento alla sopravvivenza.
Neanche i bambini dei film di guerra sono realmente dei bambini, lo spettatore vuole rispecchiarsi in essi per trovare risposte che gli indichino la strada da percorrere. È come l'immagine di un uomo nuovo. Mettere in scena un bambino nel cinema è sempre un pretesto e lo è ancora di più nei film di guerra dove i protagonisti sono ormai "adulti bambini", bambini diventati adulti per forza. È una costante del cinema, sorta di rovesciamento che mostra la decisione dei piccoli e la fragilità degli adulti. È stato così per il neorealismo italiano, modello di ogni successivo cinema di guerra, con i suoi film che mettevano in scena l'energia di un'epoca che stava cominciando piuttosto che la tragedia ancora in corso. I bambini di "Paisà" (1946) arrivati sul set dalla strada prendevano l'iniziativa di cercare Rossellini per farsi una giornata di lavoro, gli "sciuscià" di De Sica (1946) rendevano conto delle condizioni di una guerra finita ma non del tutto. Edmund di "Germania anno zero" (1948), anche lui perso nei suoi sogni destinati a crollare, si muove in un'atmosfera stranamente analoga a quella di Ivan, dove il protagonista è avvolto in una solitudine senza scampo.
Che i bambini in guerra siano un pretesto lo si vedrà in seguito anche con Steven Spielberg e il suo "Impero del sole" del 1987, dove Jim Graham, figlio superprotetto di un diplomatico inglese di stanza in Oriente allo scoppio della seconda guerra mondiale, si troverà completamente solo e dovrà imparare a sopravvivere in un campo di prigionia giapponese. Il film è tutto un decalogo di come un ragazzo anglosassone può mettere in pratica la sua abilità sportiva, il suo senso dell'avventura, valori come la sperimentazione e l'indipendenza, non senza qualche stoccata ironica da parte dei soldati yankee. La guerra diventa il grande giocattolo, l'avventura, l'aeroplano che non si fa più volare sul prato ma che si può avvicinare in tutto il suo sfolgorio.
Con "L'infanzia di Ivan* l'impatto fu dirompente perché non solo non si facevano più film sui bambini della guerra, ma perché dagli schermi stavano via via scomparendo tutti i bambini che invece avevano affollato i film dagli anni trenta fino a tutti gli anni cinquanta, importanti presenze non solo per gli intrecci melodrammatici. Negli anni sessanta in Occidente la società si sta trasformando velocemente e protagonisti assoluti diventeranno i ventenni delle nuove onde di cinema, gioventù arrabbiatissima, in aperta polemica contro le assurdità del mondo capitalistico ma anche del socialismo reale, ondata generazionale che attraversa tutti i paesi. Tarkovskij non utilizza le nuove metropoli, ma campi di betulle pattugliati: i giochi di Ivan sono ben diversi da quelli proibiti di Paulette e Michel che costruivano il cimitero degli animali evocatore della morte che invade tutto ("Giochi proibiti" di René Clement, 1951), o dai "Figli della bomba atomica" che Kanato Spindo nel 1952 mostrava con andamento documentaristico.
Sotto forma di un film di guerra Tarkovskij racconta la storia di un suo percorso interiore, catalogazione delle sue ossessioni visive, della materia delle sue immagini: è insomma un film fatto d'acqua, le esplosioni e i proiettili sono utilizzati perché la loro luce nella notte si sparpagli sull'acqua. Il percorso solitario di Ivan assomiglia a quello di Tarkovskij mandato in avanscoperta e in missione speciale, non veramente allineate, osteggiate se scoperte. Solitario e speciale come Ivan, Andrej è pronto per partire in missione poetica.
C'è poi un film che si collega idealmente ai film di Tarkovskij, ma è stato realizzato in epoca diversa, al confine con l'epoca della perestrojka. "Lettere da un uomo morto" di Lopuchanskij (1986) ci mostra, trattando della guerra atomica un altro percorso di sperimentazione visiva fatto di pellicola virata e citazioni, il pericolo toccato con mano di Cÿernobyl e il ricordo dell'ultima guerra ancora presente nella memoria. Le maschere antigas, le biciclette applicate alle dinamo per qualche minuto di luce tremolante nei sotterranei, qualche indicazione per trovare i possibili luoghi della sopravvivenza evocano in più la condizione reale di migliaia di bambini dell'Unione Sovietica contemporanea lasciati a se stessi negli orfanotrofi e poi per strada nelle metropoli dell'impero in dissoluzione, quasi una premonizione, così come li vediamo in tanti reportage realizzati ora. Quei bambini sono lontani nella realtà come nel cinema perché quel tipo di film non arriva sui nostri schermi con la baldanza di "Mad Max" (di George Miller, 1979), dove compare un altro drappello di bambini della guerra anche loro sopravvissuti al conflitto nucleare: la differenza sta tutta nel fatto che i sopravvissuti del mondo capitalistico potranno contare (secondo il cinema) su una grande quantità di oggetti che l'enorme coacervo di merci ancora fornirà e non sul nulla, se non qualche parola scritta.

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