La felicità della signora

Golinelli sarebbe un magnifico scrittore se avesse più rigore. Ha una magnifica capacità di sospendere all'interno di un solo istante i significati più riposti del cuore umano, con allusioni sottili, una lingua necessaria. In questo caso si parte magnificamente: la scelta di dar voce a questa moderna bovary, nemmeno cattiva, funziona benissimo. Si intuisce molto dolore, ma anche un po' di meschinità, un po' di noia. E la costruzione a mosaico, dove non importa il prima e il dopo ma una sorta di monocorde continuum cantabile, è davvero riuscita. Ma che accade, poi: Golinelli si stanca o crede di dover sparigliare il suo stesso gioco. Da pagina 64 a pagina 111 inserisce un vero e proprio romanzo nel romanzo. Gira la prospettiva completamente: dalla parte del figlio, per cominciare (e il lettore non ci si trova) e usando il dialogo, banalissimo, superficiale. Campo controcampo che potrebbe funzionare se non fosse così vacua la scrittura: peggio: la scrittura si mette a spiegarci quel che avevamo intuito e non ci interessava di sapere veramente (l'omosessualità del figlio, ecc.). Disastro. Il libro si sgonfia, deriva, se ne va per una strada decarliana e diventa pessimo. Usciti da questa fase, certo, si riprende come prima. Ma è ormai tardi, Golinelli ha sprecato la sua grande occasione. Che peccato, davvero che peccato!