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Descrizione


Quasi senza spiegazioni, Gopal decide di lasciare la moglie Sumi e le tre figlie ormai adolescenti. Le quattro donne tornano così alla Grande Casa, dove vivono i due genitori: Kalyani e Shripati, che da molto tempo vivono una vita di rimorsi e rimpianti, di silenzi e parole non dette. In questo romanzo l'autrice dipinge un affresco familiare in cui si confrontano tre generazioni di donne che, a loro modo, hanno trasgredito le rigide regole di casta: l'anziana Kalyani dal misterioso passato, sua figlia Sumi in cerca dell'indipendenza, e la giovane Aru, che delle tre figlie di Sumi è la più critica e determinata. Le donne raccontano, scoprono, sognano ricercano, lasciando però sempre in ombra i momenti più ambigui della loro vita.
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Dettagli

1999
1 gennaio 1999
280 p.
9788824106160

Voce della critica


recensioni di Nadotti, A. L'Indice del 2000, n. 03

Con il romanzo Una questione di tempo Shashi Deshpande riprende l'incalzante meditazione sul matrimonio, la condizione femminile e le relazioni familiari nel corso del tempo e delle generazioni avviata fin dal suo primo romanzo, Il buio non fa paura (1990; Theoria, 1997; cfr. "L'Indice", 1998, n. 3). Qui la meditazione si fa straordinariamente intensa per la maturità narrativa dell'autrice, che da una vicenda profondamente immersa nella realtà indiana trae una riflessione di valore universale, la cui chiave di comprensione mi pare vada cercata nell'esergo, tratto dal libro II delle Upanishad: "Maitreyi - disse Yajavalkya - in verità sto per abbandonare il mio ruolo (di capofamiglia)", e in una citazione di Kierkegaard: "La vita deve essere vissuta guardando avanti, ma può essere compresa solo guardando indietro". Scavando a poco a poco nel passato rimosso dei protagonisti - il marito Gopal, la moglie Sumi - si arriva a leggerne le tracce nel presente. Uno scavo spesso indiretto, che avviene attraverso racconti, aneddoti, pettegolezzi con cui diversi membri della famiglia, la nonna, le zie incrinano antichi, spesso spaventosi silenzi. Comportamenti incomprensibili diventano allo-ra drammaticamente chiari alle generazioni più giovani. Il che non riduce il dolore, ma ne spiega l'origine, e soprattutto crea le premesse per spezzare la spirale di un destino altrimenti segnato ("noi siamo il nostro destino" è quasi un mantra per alcuni personaggi). La tecnica narrativa adottata da Deshpande è, come in altri romanzi, quella che lei definisce "doppia prospettiva", ovvero l'uso alternato di prima e terza persona. Così i coniugi protagonisti, nelle loro solitudini, ripercorrono in prima persona la vita che hanno vissuto, l'amore fisico e spirituale che li ha uniti, il rispetto che tuttora li unisce. Ma il monologo interiore cede il passo alla terza persona nella narrazione del presente, creando la necessaria distanza, dando all'azione il tempo di svolgersi, al presente uno spazio tra passato e futuro, e all'autrice la possibilità di introdurre il proprio punto di vista, scegliendo questo o quello squarcio di una storia che si snoda nel corso di un secolo.
Il romanzo si apre con la meticolosa descrizione della grande casa di famiglia, luogo imprescindibile nella narrativa di
Deshpande, perché è alla casa che le donne ritornano: "Costruita per durare nel tempo (...) la casa attira lo sguardo di un gran numero di passanti (...) Non c'era una casa come quella in tutta la città". Né forse una storia paragonabile a quella della famiglia che l'ha fatta costruire e che la abita, da quattro generazioni. Al suo interno incontriamo giovani donne destinate a una vita indipendente e a moderne professioni, che vanno e vengono in motorino tra la città e la casa, ma devono fare i conti con i silenzi delle antenate, quelle che tuttora vivono nella Grande Casa e quelle i cui ritratti pendono alle pareti. Una genealogia di donne volitive che, pur muovendosi in casa propria, letteralmente, non hanno potuto/saputo affrancarsi dalla tradizionale subalternità, e portano dentro di sé il peso della colpa per eccellenza nella società indiana, quella di non aver generato un figlio maschio, o di averlo perduto. Intorno a questo nodo ruota il romanzo, e in più occasioni l'autrice rimanda al mito, o alla grande letteratura, per comprendere singoli episodi delle esistenze umane. Si avvale inoltre di un originale artificio - debitore di una modalità orale di narrazione - laddove interviene, tra parentesi, con la propria voce per illustrare singoli dettagli di tecnica narrativa, con ciò assumendosi esplicitamente ogni responsabilità nella messa in scena: "(potrebbe sembrare sbagliato, forse inopportuno, introdurre un personaggio in una fase così avanzata. Ma nessuna regola, ammesso che ce ne siano, può tener fuori Surekha dalla storia)".
Sarebbe riduttivo dire che è la storia di un marito che se ne va, e di una moglie e tre figlie poco più che adolescenti che a partire dalla sua scelta sono costrette a ridefinire la propria vita. Né è soltanto una storia che si ripete per la seconda volta nella stessa famiglia. Tutt'altro, è la storia di una ricerca di senso, di una ridefinizione dei ruoli, di una ricerca di sé che tutti i personaggi compiono, pagina dopo pagina. E Deshpande dà voce, magistralmente, a tutti. Riesce a immaginare il "burrascoso passaggio da una vita all'altra" con infinita compassione per quelle che non hanno interrotto la catena del silenzio, e con legittima simpatia per un uomo come Gopal "capace di attraversare con facilità le barriere tra i sessi, capace di fare ciò che la maggior parte degli uomini trova così difficile: mostrare a una donna tutto se stesso, non soltanto una parte". È un romanzo misuratissimo e originale nella forma e di assoluta contemporaneità nei contenuti, cui purtroppo la traduzione italiana non rende un buon servizio (ragion per cui mi è talora parso opportuno ritradurre i passi che cito). Ed è un peccato che l'editore italiano non abbia pensato di pubblicare la postfazione, dal significativo titolo No longer silent, scritta dalla studiosa indiana Ritu Menon per l'edizione americana del romanzo. Avrebbe offerto al lettore uno splendido saggio critico da noi inedito, permettendo a lettori e lettrici di capire meglio la particolarissima voce di Deshpande nel contesto letterario indoinglese attuale, e di inquadrare questo romanzo, il suo settimo, nella vasta produzione dell'autrice, il cui itinerario di scrittura viene ripercorso da Menon con sottigliezza e sorprendente efficacia narrativa.

La traduzione francese

Confesso che nel rileggere in traduzione italiana A matter of time ho provato una crescente irritazione. Non riuscivo a ritrovare la calda e ragionata intensità di Shashi Deshpande, la sua voce pacata, la felice e accessibile commistione dell'inglese con il kannada che un buon glossario e qualche nota avrebbero consentito di mantenere efficacemente, inoltre i rimandi alla cultura, alla società, e persino alla geografia indiana avevano un che di ostico, estraneo all'originale. Mi sono messa allora a confrontare i due testi, e... beh, credo che i pochi esempi consentiti da questo spazio basteranno a giustificare la mia irritazione.
A pagina 31: "English is a practical language, it has no word for the impossible" viene reso con "L'inglese è una lingua pratica, non ha vocaboli per concetti astratti". Semplificazione inaccettabile, soprattutto nel contesto squisitamente linguistico in cui è collocata, una riflessione sull'approssimazione semantica nel passaggio da una lingua all'altra.
Arrancando tra aggettivi possessivi e pronomi personali, tra forme verbali composte che un buon italiano suggerirebbe quantomeno di alleggerire, zigzagando dubbiosi tra condizionali e leziosismi quali l'uso di "allisciare", arriviamo a pagina 97 e al grottesco: "The local Mysore rajas" che viene tradotto "il raja locale Mysore". Con buona pace della geografia e della storia, oltre che della grammatica! Ma tre pagine dopo ci aspetta di meglio. "The 'higher truth', as the Rig Veda calls it" viene tradotto 'La "verità superiore', come la chiama Rig Veda". Chi sarà Rig Veda? Il corsivo non aiuta il lettore, giacché viene usato a casaccio in tutto il libro (finiscono in corsivo il Punjab, Capo Comorin, la Yamuna, Draupadi e i Pandava, alcune citazioni - non tutte -, alcuni dèi e dee - non tutti). Che sia un santone... o un cantante?
Lo spazio stringe, ma a pagina 125 ci aspetta: "Gopal, who could cross the barrier between the sexes with ease". La traduttrice imperturbabile: "Gopal, così diverso dagli altri uomini". No comment.
Lo stesso Gopal, a pagina 154 "does not pretend not to understand her question", che diventa "non tenta nemmeno di non aver capito la domanda". E a pagina 159 ci imbattiamo nella giovane Aru "intenta a seguire il suo filo dei suoi pensieri". Qui mi fermo. Non mi interessa, anzi mi dispiace infierire sul lavoro di una traduttrice palesemente inesperta, e che evidentemente non conosce il paese e la cultura con cui si cimenta. Anche perché l'assenza di note, l'imperdonabile sciatteria del glossario e innumerevoli refusi rimandano all'editore la sostanza della mia critica. D'altra parte so quale peso può avere la traduzione e la cura nel successo di un libro e mi rammarico per il trattamento riservato a un'artista come Shashi Deshpande. Tradurre implica competenza, attenzione, rispetto, piacere della scrittura condiviso tra autore e traduttore. Certo, tutto questo ne fa una costosa questione non solo di tempo, ma è appunto compito degli editori far

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