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La carriera letteraria di Carlo Emilio Gadda, indiscusso campione dell'antiromanzo novecentesco italiano, cominciò con un atto di fede, un gesto di risolutezza epica, una scelta di obbedienza e di adempimento che lo gettarono ancora giovanissimo, nel fuoco della Grande Guerra, cui partecipò come volontario dal 1° giugno del 1915 fino al 3 ottobre del 1919, giorno in cui fu definitivamente collocato in congedo. Congedo, per modo di dire, più burocratico che effettivo, dal momento che Gadda, per di più stroncato dal dolore per l'eroica morte dell'amatissimo fratello Enrico, non si riprese più dalla frustrazione e dall'amara disillusione di una guerra vissuta a denti stretti, nella macerazione interiore e nel castigo di un ideale che lo rasentò lasciandolo nell'amara consapevolezza di una psicologia obliqua e tortuosa, del tutto inadeguata alla sua aspirazione al rigore e al severo esercizio dell'autodisciplina. Quando Gadda si risvegliò da quell'incubo era certo un altro uomo. Altro almeno rispetto alla utopica proiezione di sé che l'irripetibile esperienza del fronte gli aveva messo a disposizione, per riscattarsi dai penosi strascichi di un'infanzia travagliata, di un carattere ipersensibile e ipocondriaco, tormentato e insufficiente. Per il sottotenente Gadda quella doveva essere "una guerra giusta e santa" e magari lo spunto per "una morte utile e bella". Fu invece un martirio, un supplizio personale e collettivo, e infine, dopo la disfatta di Caporetto, l'ignominia di una prigionia da cui, almeno interiormente, non si sarebbe mai più liberato. In molti modi dunque si può leggere la puntigliosa puntualità con cui Gadda decise di scrivere la sua guerra, prima quasi di viverla e quando era certamente ignaro del processo di stilizzazione estetica cui avrebbe in seguito sottoposto i suoi ricordi, a partire dalla squisite prose del Castello di Udine, che gli permisero almeno di rivivere dall'alto della sublimazione linguistica ciò che la vita gli aveva sottratto. Scrivere la guerra significò in primo luogo descriverla, catalogarla, fornirle il paranoico ordine di una cronaca cocciuta e minuta, una rigorosa trascrizione dell'essenza stessa della vita militare, come la poteva intendere un uomo d'ordine, aspirante all'azione e alla virile pragmaticità di un eroismo senza retorica. E certo così voleva sentirsi il giovane Gadda, marciando alla testa dei suoi soldati, nella fatica delle esercitazioni, nella focosa abnegazione di un riscatto non letterario, ma reale. "Noi non abbisognamo di Termopili, vogliamo Magenta e Solferino", andava appuntando nella prosa spoglia, scarna, romanamente icastica di quel Giornale di guerra e di prigionia cui il futuro autore della Cognizione del dolore decise di affidare i più contraddittori moventi che lo avevano sospinto in trincea. Bisognava intanto dar tregua ai soprassalti del cuore in tumulto ogniqualvolta "la vita pantanosa della caserma" lo costringeva alla tortura dell'inazione e alla "morbosa sensibilità" di una intelligenza analitica sempre oscillante fra "nevrastenia" e "apatia"."Il pasticcio e il disordine mi annientano", scrive con profetica chiarezza il futuro cantore del gnommero, del supremo pasticcio che pulsa nell'inerte materia del cosmo. L'apocalisse storica della guerra è già in questo diario la premessa di una catastrofe metafisica, da cui Gadda trarrà ben altro che una pur lucidissima capacità di autoanalisi, cui infatti non farà più ricorso in seguito.Almeno non con queste modalità stilistiche e psicologiche.Mai più Gadda vorrà una scrittura così virtuosamente innamorata del reale e vogliosa di catturarne l'inafferrabile "ordine", di spremerne la verità fino a disseccarne la linfa in una divorante brama di autocontrollo.Per la prima e ultima volta le emergenze pubbliche e private combaciano, anche se in negativo, e il problema Gadda, il nucleo esistenziale della sua futura, grandiosa inconcludenza, mostra qui le sue nude radici. La verità gli appare proprio nel momento in cui si ripiega, si accartoccia su di sé con lo sfrigolante attrito del giovane virgulto gettato nel fuoco ancora verde. Ed ecco che il diario trascende se stesso e diventa un cinegiornale dell'anima, potremmo dire, un appassionante documento storico e un preziosissimo incunabolo della futura narrativa gaddiana.Del resto un diario, anche non esplicitamente bellico, è sempre una scrittura di trincea, ovvero lo scavo fangoso e putrido della verità propria e altrui.E in queste allarmanti pagine, non sempre amabili, spesso spietate e grottesche (i feretri come casse di biscotti, le trincee piene di merda, i soldati che colgono l'erba che dovrà mimetizzarli come vecchiarelle che fanno l'insalata) si raggruma una sorta di sinossi del Gadda prossimo venturo, sublime nell'uso sistematico e ossessivo dell'antisublime. Senza escludere lo straordinario interesse di un interventismo, né nazionalistico, né umanitario, anzi costituzionalmente estraneo alle "diarroiche ideologie" spesso invocate per celare l'ignoranza e l'incapacità degli alti comandi, la loro ciarlataneria, o l'inafferrabile qualità etica di un popolo con cui Gadda non potrà mai identificarsi fino in fondo.Ecco dunque un'altra possibile fruizione di questi diari, leggibili come un trattatello sul carattere degli italiani, o sulla "porca rogna italiana del denigramento di noi stessi", da cui Gadda non è certo indenne, soprattutto quando è contro di sé che rivolge le sue acuminate metafore. Sognarsi diversi da quello che si è, è una indicibile sofferenza. E Gadda non fa altro nella prosa di questo Giornale di guerra e di prigionia, che assai opportunamente Garzanti ripropone ora in un solo volume di compatta e incisiva pregnanza storica e letteraria. Si vuole altro da sé, diverso, irriconoscibile, tutto d'un pezzo, magari: come cittadino, come soldato, come italiano, come scrittore. E lo stesso pretenderebbe dalla odiosamata razza dei suoi connazionali, volta per volta prototipo dell'"italiano carogna", o della divina "serena" sua gente, ma sempre assai distanti, nella effettuale realtà di una lunga, inarrestabile decadenza, dall'intransigente rigore del patriottismo gaddiano. Ed ecco che per molti anni quei diari proiettarono sulla turbata coscienza di Gadda l'ombra lunga di un parziale disconoscimento. Soltanto negli anni cinquanta, fra mille dubbi e reticenze, si decise a pubblicarne una parte, anche se, per leggere il cosiddetto Taccuino di Caporetto che con inesorabile precisione inchiodava il comando militare italiano alle sue responsabilità, bisognò attendere la morte di Alessandro Bonsanti, cui Gadda aveva affidato il manoscritto, "perché lo custodisse proteggendolo col più rigoroso segreto". Bonsanti obbedì: "I vecchi amici, come i famigliari, possono diventare l'ingombro più pesante", diceva per giustificare la sua scelta di fedeltà.Poi, per decisione unanime dei posteri, i diari di Gadda furono finalmente rimessi in libertà: a cercare, al di là del loro stesso autore, sempre nuovi e diversi interlocutori.
recensioni di Frabotta, B. L'Indice del 1999, n. 06
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