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Confessioni di un maturo consumatore di ecstasy - Anonimo - copertina
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Confessioni di un maturo consumatore di ecstasy - Anonimo - copertina
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Descrizione


L'anonimo di questa "confessione" è un professore e poeta americano, ha cinquant'anni, un figlio adolescente arrivato a due passi dal suicidio, una famiglia devastata, un matrimonio allo sfascio, e conosce un lungo periodo di abulia e abbruttimento. È allora che il figlio - dopo essere stato motore dello sfacelo - riappare come inatteso interlocutore. Il tema comune è la droga, l'ecstasy. Dapprima goffamente, poi sempre più lucidamente, il padre si avvicina, assapora, intensifica il suo rapporto con l'ectasy. L'anonimo estensore di questo "documento" si fa paladino del consumo di ecstasy, ne rivendica la "delizia", ne suggerisce l'uso. Con una nota di Nicholas Saunders.
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Dettagli

2002
Tascabile
13 maggio 2002
78 p.
9788807840166

Valutazioni e recensioni

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Manuel
Recensioni: 3/5

più che confessione è una corta dichiarazione. interessante, ma non esaustiva. da quando l'ho letto credo sempre più all'ignoranza della società nei confronti delle cosiddette droghe. siamo ottusi, e questo anonimo autore ce lo fa capire.

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michele
Recensioni: 3/5

Carino, lettura leggera e poco impegnata, affronta un tema spigoloso e pungente per la diffusa coscienza benpensante. Non male, si legge in un'oretta, illustra un lato della droga (nella fattispecie ecstasy) che cerchiamo sempre di non vedere, o far finta che non ci sia, essendo sempre impegnati a cercare solo i "danni collaterali" di un vizio che evidentemente dà anche qualche piacere a qualcuno. Un libretto che fa a cazzotti con la mentalità puritana oggi di moda.

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maurizio crispi
Recensioni: 5/5

Si tratta di un piccolo libro decisamente controcorrente, rispetto al generale allarme sul tema delle nuove droghe e dei policonsumi giovanili. Lo si può considerare un testo “nuovo”, ma nello stesso tempo “non nuovo”, perché innanzitutto si pone nel filone delle narrazioni autobiografiche nel campo delle tossicodipendenze e dell’abuso di sostanze psicoattive: ma, a differenza di molti altri testi di questo tipo, nei quali è possibile riconoscere un’indubbia valenza auto-terapeutica, nel senso che lo scrivere e lo sforzo sotteso d’elaborazione hanno aiutato gli autori a venire fuori in qualche misura dall’esperienza con la droga, a prenderne le distanze, queste memorie sembrano connettersi, da un lato, al celebre testo di De Quincey, Le confesioni di un mangiatore di oppio, di cui non solo riprende in parte il titolo ma che l’Autore cita espressamente in epigrafe e, dall’altro, ai testi di W. Borroughs, che sino alla sua morte avvenuta di recente ha rappresentato un esempio di come per tutta la vita si possa convivere con un uso spinto delle droghe, senza mai scivolare in uno stato di morte “sociale”, anzi mantenendo una piena produttività intellettuale. Quindi, a differenza dei testi del primo tipo in cui l’esperienza della scrittura costituisce una presa di distanza dal rapporto con le droghe ed una sorta di riscatto (anche a posteriori, come nel caso della diaristica rinvenuta postuma), le Confessioni di un maturo consumatore di ecstasy, a somiglianza dei suoi illustri precedenti letterari, rappresentano sia pure in tono minore (con una forte accentuazione minimalista, e in assenza dei toni visionari) una celebrazione dell’esperienza con la droga, come riscatto e strumento di uscita da esperienze di vita disastrose. L’autore dedica la prima parte del testo a raccontare in breve la sua vita prima dell’iniziazione all’esperienza con l’MDMA ed altre molecole correlate: una vita che si è dipanata in man

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Voce della critica

Si tratta di un piccolo libro decisamente controcorrente rispetto al generale allarme sul tema delle nuove droghe e dei policonsumi giovanili.

Lo si può considerare un testo "nuovo", ma nello stesso tempo "non nuovo", perché innanzitutto si pone nel filone delle narrazioni autobiografiche nel campo delle tossicodipendenze e dell'abuso di sostanze psicoattive: ma, a differenza di molti altri testi di questo tipo, nei quali è possibile riconoscere un'indubbia valenza autoterapeutica, nel senso che lo scrivere e lo sforzo sotteso d'elaborazione hanno aiutato gli autori a venire fuori in qualche misura dall'esperienza con la droga, a prenderne le distanze, queste memorie sembrano connettersi, da un lato, al celebre testo di De Quincey, Le confesioni di un mangiatore di oppio, di cui non solo riprende in parte il titolo ma che l'autore cita espressamente in epigrafe e, dall'altro, ai testi di Borroughs, che sino alla sua morte avvenuta di recente ha rappresentato un esempio di come per tutta la vita si possa convivere con un uso spinto delle droghe, senza mai scivolare in uno stato di morte "sociale", anzi mantenendo una piena produttività intellettuale.

Quindi, a differenza dei testi del primo tipo in cui l'esperienza della scrittura costituisce una presa di distanza dal rapporto con le droghe e una sorta di riscatto (anche a posteriori, come nel caso della diaristica rinvenuta postuma), le Confessioni di un maturo consumatore di ecstasy, a somiglianza dei suoi illustri precedenti letterari, rappresentano sia pure in tono minore (con una forte accentuazione minimalista, e in assenza di toni visionari) una celebrazione dell'esperienza con la droga come riscatto e strumento di uscita da esperienze di vita disastrose.

L'autore dedica la prima parte del testo a raccontare in breve la sua vita prima dell'iniziazione all'esperienza con l'Mdma ed altre molecole correlate: una vita che si è dipanata in maniera assolutamente normale e che, da un certo momento in poi, ha cominciato a essere segnata da eventi disastrosi; problemi legati al comportamento burrascoso e antisociale dell'unico figlio, la rottura - in conseguenza di ciò - del ménage matrimoniale, lo scivolamento progressivo in uno stato depressivo e il degrado della vita sociale, sino a livelli di radicale perdita della propria autostima; poi la ripresa, favorita, secondo il nostro anonimo narratore, dall'avvio di una nuova relazione con risvolti sessuali inaspettatamente soddisfacenti (rispetto alle sue precedenti esperienze), ma soprattutto dalla scoperta della molecola dell'Mdma, altrimenti conosciuta come ecstasy, e dal progressivo approfondimento di una sperimentazione dei suoi effetti, in termini di sensazioni nuove, vibrazioni positive, fruizione di stati modificati di coscienza, nuova gioiosità mai sperimentata prima nei confronti della vita.

La cosa curiosa, che crea nel lettore un senso di spiazzamento - lasciandolo nello stesso tempo un po' perplesso -, è che l'autore approda alle prime esperienze con l'Mdma per suggerimento del figlio, che intanto, dopo essere approdato al mondo variegato dei rave e aver iniziato l'uso degli empatogeni, ha abbandonato in maniera completa le condotte antisociali all'origine di tutti i problemi del padre. Ma non solo, il figlio, da questo momento in poi, diventerà anche il regolare fornitore del proprio padre per la prosecuzione delle sue esperienze.

Questo passaggio del testo induce a riflettere sul fatto che forse oggi i giovani conducono delle esperienze che, se fossero regolamentate anziché sistematicamente criminalizzate, manifesterebbero un elevato potenziale d'autoterapeucità e capacità catalizzatrici di trasformazioni: ci viene fatto intravedere un possibile rovesciamento dell'ordine delle cose secondo cui oggi i figli, sulla base delle loro esperienze di rottura con il mondo dei genitori e della loro inesausta ricerca di dimensioni di vita non convenzionali, potrebbero divenire in qualche misura "terapeuti" e taumaturghi delle vite sconquassate dei propri padri.

Si vede qui in opera un capovolgimento radicale di alcuni percorsi antropologici codificati da specifiche ritualità e che nelle società tradizionali consentivano il transito dei giovani all'età adulta: nelle pagine di questo testo è un figlio che diventa iniziatore di un padre. Ciò porterebbe a interrogarsi a lungo sulle funzioni dei padri nel processo di crescita dei figli nel nostro modello di società, ma non è questa la sede per affrontare un discorso che richiederebbe ben altri spazi.

L'autore dichiara di essere divenuto un impenitente consumatore di ecstasy e di non avere alcuna voglia di abbandonarne l'uso, perché adesso, al momento della scrittura, dopo anni di sofferenze e di sbando, finalmente sta bene e ha riacquistato la voglia di vivere. Afferma che intende continuare a farne uso, anche se con moderazione. Infatti, riflette che sempre occorre "moderazione, in tutte le cose, persino in quelle straordinariamente corroboranti, perché talvolta anche ciò che ci cura ci può uccidere".

In quest'affermazione emerge dunque un punto di vista importante che è quello secondo cui, in molte circostanze, l'uso di una droga può assumere una valenza (auto)terapeutica - anche se ciò il più delle volte rimane misconosciuto. Il semplice piacere edonistico dell'uso di alcune sostanze psicoattive oppure, peggio, le loro potenzialità terapeutiche, il più delle volte sono evenienze ampiamente mascherate (o addirittura cancellate) dall'alone di forte riprovazione morale che circonda le droghe illegali (ovverosia quelle sostanze che, per legge, sono definite "stupefacenti").

Ma, d'altra parte, il nostro anonimo autore riflette sul fatto che il rapporto con droghe di questo tipo si pone quasi come una sorta di necessità ontologica derivante dalla struttura della nostra mente: "Cos'è la mente se non qualcosa con cui è necessario interferire? Cos'è la coscienza, se non uno stato che è necessario alterare?". È questo, ovviamente, un possibile punto di vista, con il quale si può essere d'accordo oppure no: ma, come contraltare a questa visione, a mio avviso pericolosamente riduzionista, è opportuno ricordare qui che non soltanto le droghe - per vie "corte" - portano alla "felicità" e a stati alterati di coscienza (i cosiddetti Asc), ma che esistono molte altre tecniche (non farmacologiche) che esitano (ma con un apprendistato sicuramente più lento) negli stessi risultati, per non parlare poi della possibilità di imparare a riconoscere e a padroneggiare i meccanismi che determinano le estasi "spontanee", ampiamente illustrati da Hulin in un testo edito di recente da Red, Misticismo selvaggio. L'Esperienza spontanea dell'estasi.

Insomma, questo libro si pone probabilmente come un piccolo documento del nostro tempo nel quale si vede emergere sempre di più, accanto alle drug addiction di rilevanza clinica, un modello di consumo a volte autoterapeutico, altre volte semplicemente edonistico, talora "strumentale", ma sempre conseguenza di un'organizzazione di vita che, favorendo l'emergere di neo-bisogni, coltiva attivamente in ciascuno l'idea che per ogni malessere, per ogni esigenza ci possa essere uno strumento (farmacologico) idoneo a ottenere il cambiamento desiderato.

L'editore, avvertito del pericolo che alcune parti di questo testo possano essere rubricate da qualche occhiuto censore come "apologia di droga", evenienza - com'è noto - specificatamente punita dal nostro attuale corpus normativo, ha voluto inserire in calce alle Confessioni, stralciandole da un classico testo sull'ecstasy (Nicholas Saunders, E come Ecstasy, Feltrinelli, 1995), alcune pagine che - in maniera equilibrata e non allarmistica - informano dei pericoli dell'Mdma e di altre molecole correlate quei lettori sprovvisti di altri elementi di conoscenza sull'argomento.

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