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L' analfabeta. Racconto autobiografico - Agota Kristof - copertina
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L' analfabeta. Racconto autobiografico
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L' analfabeta. Racconto autobiografico - Agota Kristof - copertina

Descrizione


Undici capitoli per undici episodi della sua vita, dalla bambina che divora i libri in Ungheria alla scrittura dei primi libri in francese. L'infanzia felice, la povertà del dopoguerra, gli anni di solitudine in collegio, la morte di Stalin, la lingua materna e le lingue nemiche (il tedesco, il russo e in un certo senso anche il francese), la fuga in Austria e l'arrivo a Losanna, profuga con un bebè.
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Dettagli

2005
27 gennaio 2005
53 p., Brossura
9788877134264

Valutazioni e recensioni

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Lucia C.
Recensioni: 5/5

Bellissimo! Una serie di episodi tratti dalla vita della Kristof, raccontati con la sua scrittura asciutta e coinvolgente.

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Recensioni: 4/5

Raccontare, leggere, scrivere…le parole come necessità. Necessità di cronaca, di memoria, di cura del dolore; necessità di trattenere il legame con l’identità, con il senso di appartenenza che il tempo e la vita dissolvono. Agota Kristof racconta frammenti del suo passato di profuga. Tessere di terracotta grezza che rimandano tutte al senso profondo della sua scrittura, e dunque della lingua imprescindibile strumento di difesa della propria storia. Si comprende, attraverso le sue parole, quanto sia vasto e arido il deserto dell’incomunicabilità che si spalanca dentro coloro che, abbandonando la propria casa e la lingua madre, perdono qualunque riferimento gli appartenga. È un deserto che spoglia e riconsegna nudi, analfabeti, costretti a ricostruire su basi diverse, nel paradosso che la salvezza e la sicurezza raggiunte non potranno colmare il vuoto di un’identità perduta. Rileggere la Kristof dopo tanti anni è emozionante. È emozionante ritrovare la sua scrittura diretta, scarna. È interessante e attualissima la centralità dell’irrinunciabile binomio di ogni sua narrazione: identità/linguaggio. E, infine, è toccante la ferma determinazione di questa donna che ha attraversato i confini d’Europa con una valigia piena di dizionari. Quanto di più rappresentativo delle sue angosce: acquisire una nuova lingua perdendo la propria. La chiave sta nei dizionari, nella volontà di sfogliarli, di tenere legate due storie, due mondi, mentre si è determinati a raggiungere i propri obiettivi. Il vero modo di onorare la propria storia.

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cristinapatregnani
Recensioni: 5/5

Breve racconto autobiografico di Agota Kristof, chiave importante per capire la sua scrittura e la sua storia. Nel racconto, la sotto-trama è senz'altro l'elogio della lettura, oltre che dello scrivere.

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Recensioni

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Voce della critica

È da Ieri (diventato Brucio nel vento per la regia di Silvio Soldini) che Agota Kristof non scrive. Non per angoscia della pagina bianca o per deliberata scelta, ma perché ritiene di avere detto tutto nella famosa Trilogia della città di K. (Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna). L'analfabeta e La vendetta compaiono ora in libreria quasi per caso, grazie a un ritrovamento casuale nell'archivio dell'autrice, di recente trasferito alla biblioteca nazionale di Berna.

L'analfabeta è un racconto autobiografico creato in origine per una rivista zurighese: Kristof, nata in Ungheria nel 1935 e da lì fuggita nel 1956, parla di sé, della sua vita sradicata e del difficile rapporto con la scrittura, fin da quando, a quattro anni, leggeva tutto ciò che le capitava tra le mani. All'inizio scriveva testi che venivano recitati con successo dai compagni di scuola. Una pratica ripresa in Svizzera, e la sua prosa ha infatti mantenuto quel ritmo particolare della scrittura nata per l'oralità, che riduce al minimo l'intervento del narratore, riportando fatti e pensieri con rarissimi commenti. In una sorta di registrazione sospesa, Kristof crea un ponte tra lei giovane lettrice e noi lettori, costruendo un racconto che sfiora soltanto l'autobiografia per diventare una riflessione sull'arte di scrivere, un omaggio alla letteratura. Ripercorre le tappe che l'hanno condotta alla scrittura attraverso un apprendimento linguistico che coincide con l'accettazione della nuova vita di profuga. La storia si segmenta in capitoli, ciascuno dedicato a una fase del cammino verso l'integrazione forzata, e apre una prospettiva diversa su temi duri, multiformi e cari alla letteratura: l'infanzia, la frontiera, l'appartenenza, la memoria.

Sin dal primo evento traumatico, il trasloco a nove anni in una città di frontiera, il ricordo si focalizza sull'elemento linguistico, veicolo di comunicazione e di emozioni. Un quarto della popolazione parla tedesco, lingua della dominazione austriaca e dei soldati che in quel periodo occupano il paese. La seconda lingua straniera, all'improvviso obbligatoria nelle scuole, è il russo. Ma nessuno lo conosce. Ai professori sono imposti corsi intensivi, con scarsi risultati: "Un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé" e che le generazioni successive, finché il russo non scompare, continueranno ad alimentare. Ancora alla fine degli anni ottanta, quando l'inglese, il francese e l'italiano (oggi diffusissimo) erano scarsamente praticati in Ungheria, il viaggiatore poteva ricorrere al tedesco, parlato senza entusiasmo, ma soprattutto non doveva menzionare il russo. Nel suo francese leggero, stringato, elementare, reso crudele dalla totale assenza di concessioni poetiche, Kristof stilizza le coordinate di una violenza culturale assoluta contro "i piccoli paesi senza importanza".

La battaglia con un alfabeto oscuro è però solo l'inizio, perché dopo la fuga in Austria, e da lì in Svizzera, sceglie di scrivere in francese. Solo – lei dice – per poter essere letta. Ed è un'altra lingua nemica, del tutto sconosciuta, contro la quale inizia "una lotta accanita e lunga, che di certo durerà per tutta la mia vita. Parlo il francese da più di trent'anni, lo scrivo da vent'anni, ma ancora non lo conosco". Non sono rari gli scrittori che scelgono di articolare pensieri e affetti in un diverso idioma, per recuperare parti di sé o invece sfuggire al dolore imponendo un filtro emotivo ai ricordi. Nel caso dell'emigrazione forzata, l'esiliato è costretto ad appropriarsi di un altro mondo linguistico, e la nostalgia finisce per coagularsi intorno alla lingua perduta dell'infanzia, lingua dimenticata, proibita, salvata. Pensiamo al russo di Nabokov, le cui vocali a forma di arancia niente hanno a che vedere con quelle inglesi simili a limoni, come diceva ai suoi studenti; al tedesco "incantato" nei sussurri dei genitori che Canetti scelse quale lingua di scrittura; all'inglese del rifugiato ebreo Fred Uhlman, che affida al suo personaggio più noto, protagonista di L'amico ritrovato, il bisogno di tagliare via un passato drammatico, fino a rinnegare la lingua madre; al francese atipico dell'argentino Bianciotti, veicolo di recupero di antichi familiari suoni piemontesi.

L'apprendistato linguistico di Kristof risulta lento e faticoso, frastagliato, passa per un lavoro in fabbrica che offre conforto materiale e non facilita il contatto umano; soprattutto, distrugge la speranza di aver partecipato a qualcosa di importante, di aver ripreso in mano la propria vita. Dopo cinque anni parla francese, e ancora non lo sa leggere: "non so come ho potuto vivere senza la lettura per cinque anni". Imparerà con la figlia che intanto va a scuola, e seguendo corsi per stranieri. Ma il paese ospitale che ha offerto rifugio e protezione, accolto i profughi con cioccolato e frutta coccolandoli come in un "giardino zoologico", diventa un deserto sociale e culturale da attraversare per giungere a quella "che chiamano l'integrazione, l'assimilazione". Molti soccombono. Lei, tornata "analfabeta" come recita il titolo, riapprende la vita in una lingua "nemica", diversa, pesante, povera di ritmo e di vocabolario, imposta dal caso e dalla necessità, ricusata senza appello perché "sta uccidendo la mia lingua materna". Nel suo lavoro di tessitura associativa, Kristof sostiene che il francese distrugge anche la memoria, i suoni dell'infanzia e gli eventi precedenti la fuga dall'Ungheria. Diventa lo spartiacque fra il prima e il dopo, fra la realtà e il sogno, "come se la mia memoria rifiutasse di ricordare il momento in cui ho perso una parte importante della mia vita".

La trasmigrazione linguistica sembra la radice remota del senso di estraneità che pervade una scrittura precoce, conseguenza del talento affabulatorio infantile, e fin da subito cifra della rottura, compagna dei "giorni cattivi" e degli anni "non amati". Quando, separata dai genitori, entra in collegio in una città sconosciuta, scrivere sarà l'unica soluzione per sopportare il dolore del distacco, il senso di abbandono e la perdita della libertà, resi più acuti dalla noia delle ore di silenzio obbligato. Finiti rapidamente i compiti, Agota scrive un diario, inventando un codice privato in cui ricostruisce il suo mondo. "Ho lasciato in Ungheria il mio diario della scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo".

Sul filo degli anni, Kristof ha registrato questa mancanza e l'impotenza che ne deriva nei testi brevi, fulminei e fulminanti appena pubblicati in Francia da Seuil (C'est égal, 2005) e già tradotti in italiano con il titolo della storia che l'autrice dice di sentire più vicina, La vendetta (Einaudi, 2005). È di nuovo un recupero di scritti del passato, slegati tra loro e non autobiografici, se non per la consapevolezza, amarissima, che "forse fuori c'è una vita, ma in questa vita non succede niente. Almeno per me. Per gli altri può darsi che qualcosa succeda, possibile, ma non m'interessa più" (Penso). Ma tutti sono clandestini della vita, l'estraneità al mondo è quasi un mestiere: il venditore non vende, il ladro non ruba, lo scrittore non scrive. L'uomo che trascorre il tempo in attesa di una lettera che gli riveli le sue origini non riesce ad affrontare la realtà quando la riceve; l'altro, che passa le giornate vicino al telefono sperando di essere chiamato anche solo per errore, finisce per sottrarsi al desiderato incontro con una donna sconosciuta.

In quelle pagine degli anni settanta la piccola Agota che abbandona la città natale rivive nel bambino in lacrime di fronte al trasloco dei vicini, perché "lasciare una casa per un'altra è triste come se avessero ucciso qualcuno" (La casa). E infatti la vecchia casa diventa il suo interlocutore quando a sua volta gli tocca partire. Torna spesso a trovarla per chiederle se soffre quanto lui e, diventato ricco, ne fa costruire una esattamente uguale, con la veranda e la vigna che si arrampica sui muri. Ma la nuova casa del bambino cresciuto, così come la nuova lingua della scrittrice ritrovata, non rimargina la ferita, e l'uomo se ne va senza dire nulla a nessuno, altrove, in un'esistenza di aerei, navi, treni e alberghi. "Sarà in questa o in un'altra vita? Tornerò a casa, una casa che non ho mai avuto, o troppo lontana perché me ne ricordi, perché non era, non è amai stata veramente casa mia" (Casa mia).

Se in L'analfabeta il tormento che anima il processo creativo si stempera un poco attraverso la scrittura, risorsa ultima cui attingere per ricostruire, qui non rimane che l'osservazione impotente: "qualcuno canta qualche cosa. Fa lo stesso, non è nemmeno bello, è una canzone triste, antica" (Fa lo stesso). La canzone triste e antica che rende alla fine tutto uguale è il fil rouge che lega L'analfabeta all'ultimo racconto (Mio padre), il più autobiografico nel senso letterale del termine. Kristof vi narra il ritorno nella nazione d'origine per il funerale del padre. Trentasei ore di treno e ventiquattro di sosta nel passato di un luogo praticamente sconosciuto, col pensiero remoto di rubare l'urna per interrarla nel paese natale, sulla riva del fiume, nella terra nera. E la subitanea tragica presa di coscienza che quel posto non lo conosce, perché da nessuna parte suo padre ha passeggiato con lei tenendola per mano.

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Agota Kristof

1935, Csikvánd (Ungheria)

Scrittrice ungherese. Nel 1956 è spettatrice dell’invasione del suo paese da parte dei carri armati sovietici. Fuggita con la famiglia in Svizzera, trova un impiego presso una fabbrica di orologi. Comincia a scrivere nella sua lingua di adozione, il francese, prima testi per il teatro, poi romanzi che la impongono all’attenzione del grande pubblico: Il grande quaderno (1987), La prova (1990), La terza menzogna (1992) – che nella traduzione italiana confluiscono a formare La trilogia della città di K (1998) – in cui le storie parallele di due gemelli, Klaus e Lucas, si dipanano in un labirinto di disperazione morale e bruciante dolcezza, sullo sfondo di una guerra divoratrice. Anche nelle opere successive (Ieri, 1995; L’analfabeta, 2004; Dove sei...

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