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Gli affamati - Mattia Insolia - copertina
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affamati

Descrizione


Candidato al Premio POP – Premio Opera Prima 2021 - Libro candidato da Fabio Geda al Premio Strega 2021

Una grande, nuova narrazione contemporanea che sa illuminare la nostra rabbia e la nostra solitudine, che lo fa attraverso una lingua precisa e scarna, uno sguardo maturo e senza paura. Un desiderio autentico di denudare la realtà per comprenderla e forse, domani, trasformarla.

«Il romanzo sorprendente di uno scrittore giovanissimo, eppure già maturo»Teresa Ciabatti

«"Gli affamati" racconta una disperazione senza scampo: due vite implose dentro un Mezzogiorno ostaggio di una routine soffocante. La parabola di due fratelli che, vinti da un destino incapacitante, non trovano la forza di essere sé stessi. Leggere Mattia Insolia significa guardare il mondo col piede in fallo su un precipizio. Ma c'è una speranza in questo affresco nero: la scrittura colma di "pietas" di questo giovane autore che alla fine riscatta l'inferno che descrive e illumina una possibile via di salvezza»Crocifisso Dentello

Antonio agognava un cambiamento, e quel lavoro sarebbe potuto essere un buon inizio, ma gli si rivoltava lo stomaco all'idea di abbandonare ciò che aveva. All'idea di abbandonare quei polmoni catramosi, quelle dita sporche di grasso e polvere, quegli occhi carichi delle oscenità a cui avevano dovuto assistere. In fondo non possedeva niente, neanche sé stesso, forse. Ma pur di tenerselo stretto, quel niente tanto rassicurante, avrebbe rinunciato a qualsiasi altra cosa.

Antonio e Paolo sono fratelli, diciannove e ventidue anni. Vivono soli da quando il padre è morto e la madre è andata via di casa. Insieme hanno costruito una quotidianità che, seppur precaria, parrebbe funzionare. Vivono alla giornata, tirano avanti in un presente che non concede di elaborare progetti futuri. E abitano in un paese minuscolo, una periferia immaginaria nel centro Sud che sembra quasi un confino, degradato e gretto. È un'estate torrida. Antonio cerca un lavoro, Paolo di tenersi stretto il proprio. L'esistenza dei due procede senza grandi avvenimenti, tra notti allucinate, feste con gli amici, giornate al mare e serate di sesso, alcol e droga. Finché poi, un giorno di quiete apparente, qualcosa si spezza, e vecchi scheletri saltano fuori dall'armadio, mostri del passato seppelliti in malo modo. La madre, fuggita anni prima dal marito violento, torna da loro, un amore quasi dimenticato bussa alla porta di uno dei due fratelli e crimini di cui non è mai stata scontata la pena si affacciano all'orizzonte dell'altro. E tutto dev'essere rimesso in discussione.

Proposto da Fabio Geda al Premio Strega 2021 con la seguente motivazione:
«Mattia Insolia ha venticinque anni e Gli affamati è il suo primo romanzo. Lo dico subito perché non si tratta solo di accogliere tra i dodici candidati al premio un romanzo potente, contraddistinto da una lingua efficace e da uno sguardo intenso, ma anche di tenere a battesimo un autore che è qui per restare. Cosa fa di prezioso, Insolia? Consegna al lettore le chiavi di una certa periferia urbana ed esistenziale. Lo invita ad abitare la giovinezza, la solitudine e la rabbia di Antonio e Paolo, i fratelli protagonisti, così da capire, o anche solo intuire, la giovinezza, la solitudine e la rabbia di una parte del Paese e del nostro presente. Non solo: Gli affamati è segnato da una onesta compassione. E il patire con Antonio e Paolo spinge a interrogarsi sui privilegi, sui luoghi cui apparteniamo, e ci esorta a immaginare una società capace di farsi villaggio. Per questo lo candido con gioia e convinzione al premio.»

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Dettagli

3
2020
2 luglio 2020
176 p., Brossura
9788833313665

Valutazioni e recensioni

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Recensioni: 5/5
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AndreA
Recensioni: 3/5

Premetto che sono un vorace lettore di libri "pugno nello stomaco", di storie di antieroi e di personaggi soli, ai margini. Purtroppo non ho potuto evitare di trovare il tutto un po' artefatto e non sono mai riuscito a sentire la Verità. È sicuramente un bel libro, stile curatissimo (troppo?), ma... Aspetto con fiducia che questo bravo e giovane autore sbocci, per ora non grido al miracolo.

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Alba
Recensioni: 5/5

Una storia dura, scrittura asciutta ma che colpisce dritta al centro. Molto bravo lo scrittore ,lo seguirò sicuramente.

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Sole
Recensioni: 5/5
Breve ma efficace

Con una scrittura molto puntuale e tagliente al punto giusto, questa storia centra l'obbiettivo. È la storia di due fratelli che ti fa appassionare

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Recensioni

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Voce della critica

Due giovani fratelli, Paolo e Antonio, vivono da soli in un paesino siciliano. Paolo, il maggiore, fa il muratore, è perennemente in contrasto con il capocantiere e conduce una battaglia interiore con la sua rabbia; Antonio è più ingenuo, a differenza del fratello non ha imparato a farsi rispettare, o più semplicemente non è riuscito ancora ad adattarsi alle asprezze della vita. Su di loro incombe la fuga di una madre che ha scelto un’altra vita e l’assenza di un padre alcolizzato, che anche da morto dà pensiero: per quello che è stato e che i suoi figli non vogliono diventare. Così si presenta l’esordio di Mattia Insolia, catanese classe 1995, che sta facendo parlare di sé grazie soprattutto all’endorsement e alle lodi di Teresa Ciabatti.

Paolo e Antonio conducono una vita instabile, lontana dalle certezze e dagli agi, nel disperato tentativo di ritagliarsi uno spazio per loro in cui essere non certo felici, ma perlomeno tranquilli. Si fanno bastare piaceri effimeri: la sbronza di una notte, il sesso occasionale, una pizza, qualche bravata come gettare sassi da un cavalcavia.
Poi arrivano i problemi sul cantiere per Paolo, poi ritorna la madre per cercare di ricucire il rapporto, poi le esperienze sentimentali che vanno incontro al fallimento. Al punto che la situazione precipita fino agli esiti tragici che già aveva svelato il prologo, collocato due mesi prima dei fatti narrati, nel quale uno dei due fratelli muore tra le braccia dell’altro, in strada, pare freddato da tre colpi di pistola.

Nella tragedia dei due fratelli, Insolia tenta di raccontare la tragedia di una generazione di giovani, in particolare nel Sud Italia, che non hanno speranze, abbandonati dalla famiglia, dallo Stato, dalle istituzioni, e si ritrovano genitori di se stessi, a crescere e mantenersi in vita scendendo a patti con le ingiustizie e i soprusi. La delinquenza appare esito inevitabile della frustrazione e del dolore, nonché strategia per rivendicare la propria presenza, per provare ad esistere davvero, come a dire: Guardatemi, ci sono anch’io.

D’altra parte, Gli affamati rischia d’essere la solita storia di disagio e devianza che non riesce più a sorprendere, nella quale due giovani fratelli, abbandonati dalla madre e orfani di un padre alcolizzato, sviluppano un risentimento generalizzato che esplode in episodi di violenza. Non può bastare a fornire l’originalità mancante il tema dell’omosessualità, che viene appena abbozzato – anche tardivamente, nel tentativo di creare un colpo di scena – senza che riesca a intervenire concretamente, a risultare coerente con quanto letto prima o a proiettare nuova luce sul senso di comportamenti e azioni individuali, come fosse soltanto un’appendice pleonastica nell’economia delle vicende.

A questo si aggiunge che i personaggi sembrano soffrire di un deficit di caratterizzazione, sino ad apparire monodimensionali, distinti soltanto per alcune connotazioni di base appena accennate. La finzione narrativa non viene scostata e rimane visibile e ingombrante: essi appaiono effettivamente come personaggi artificiali, piuttosto che come persone credibili e pulsanti.
Nella seconda parte del romanzo si tenta di mostrare un’umanità e una debolezza interiori, in contrasto con il carattere duro e spigoloso che esteriorizzano. Questi tentativi, tuttavia, non fanno che confermare delle aspettative piuttosto note: non può risultare innovativo e sorprendente che i ragazzi abbiano sviluppato la tendenza a celare i propri sentimenti dietro una corazza di forza apparente.

Si finisce così per trasporre in termini piuttosto semplicistici quella che dovrebbe essere una psicologia articolata e contraddittoria. Tutte le tensioni (rispetto alla famiglia, ai sentimenti, alla società, ecc.) che dovrebbero innervare i personaggi e dar loro complessità vanno invece a giustificare ogni cosa con facilità quasi eccessiva. Il conflitto, pertanto, si avverte solo in un comportamento generalmente ostile, tendenzialmente collerico e violento, che rischia di apparire però convenzionale; come lo sono anche i tentativi di riscatto attraverso l’amore o il rifugiarsi di Antonio nei libri.

Merita d’essere approfondita anche la questione stilistica. La lingua di Insolia cerca di riprodurre la secchezza e la ruvidezza di uno slang colloquiale e sporco. Una scelta originale negli anni ’80 di Tondelli (fermo restando che la lingua di Tondelli era l’esito di una ricerca complessa e minuziosa). Il punto non è tanto questo: la questione stilistica lascia qualche perplessità non per le caratteristiche in sé, quanto per il risultato finale e l’aspetto complessivo.

«Oscar era gay. Niente di complicato: avrebbe dovuto avere la passione per la fica e invece gli piaceva il cazzo. E pure tanto, Santa Madonna. Ma che poteva farci? Era nato così, non c’era diventato per moda o vattelappesca. Era gay. Punto. Da piccolo, quando ancora non era né carne né pesce…» (p. 83)

Inoltre si passa da espressioni ovvie, piatte e/o poco eleganti come “strabuzzare gli occhi”, “affondare gli occhi l’uno nell’altra”, “la frittata era fatta”, “capelli sale e pepe”, i già citati né carne né pesce o vattelappesca, e altri, a tentativi (poco coerenti col resto) di innalzare lo stile, come “l’autostrada, una cicatrice grigiastra tra i lembi di terra assediati dall’avena selvatica”, “l’uno di fronte all’altra esprimevano il naturale contrasto governante il mondo”fino a giungere a formulazioni più fantasiose come zigomi che tremolavano”, “leggere gli dava una bella sensazione alla bocca dello stomaco”. Per tacere poi della sfilza di “eppoi“, “epperò“, “eddai”epperché“.
Il tutto pone il serio dubbio di quanto certe scelte rientrino davvero in una strategia consapevole e ponderata. E se pure così fosse, resta il dubbio se si tratti o meno di una strategia vincente.

Stona anche quel che accade nel finale, appena prima dell’epilogo. I fratelli, che pure erano stati in tensione, comprendono all’improvviso che possono trovare l’uno nell’altro tutto quello che serve per stare bene, capiscono che in fondo la loro vita non è poi così male, e tutto finisce felicemente con una grigliata in giardino e un bagno insieme. Prestano il fianco anche a un sentimentalismo e a momenti di riflessione non da loro. Viene insomma a crearsi una situazione di vero e proprio idillio, che non appare come l’esito di un processo logico di eventi e consapevolezze, bensì del tutto improvvisa e ingiustificata, soltanto finalizzata a suscitare commozione nella lettera di epilogo.

Probabilmente è proprio la lettera finale a introdurre gli aspetti più interessanti (come la verità sulla fine del padre), che avrebbero meritato sicuramente sviluppo migliore. Di fatti, la loro presenza limitata alla brevità dell’epilogo (nel tentativo, sembrerebbe ancora, di creare un colpo di scena finale) ne sminuisce tutto il potenziale. Inoltre la lettera lascia pensare che un racconto delle vicende in prima persona avrebbe potuto giovare e di molto al romanzo, rispetto a una voce narrante esterna e fredda, che spesso diverge per fare focus sinceramente poco necessari su personaggi secondari o marginali.

Pertanto l’assenza di una profonda e adeguata costruzione psicologica, trascurata a vantaggio di una mera descrizione di eventi spesso vuoti e ridondanti, unitamente a un soggetto a cui si è assuefatti e a uno stile poco significativo e poco convincente, trasmette una generale e diffusa sensazione di prevedibilità al romanzo, e rischia di ridurre il discorso sull’essere giovani oggi a uno slang e a un dato anagrafico, senza aggiungere nulla di nuovo al tema generazionale.

Tutto questo pone anche degli interrogativi di più ampia portata: si può scrivere un’opera che aspira ad essere il ritratto di una generazione senza ricorrere al topos del genitore assente (tipicamente padre alcolizzato/violento e madre che abbandona o muore), senza parlare necessariamente e per lo più di sesso e di violenza, senza ricorrere per la narrazione a una lingua eccessivamente scarna e innervata da slang e bestemmie, quasi che esprimersi come i giovani fosse l’unico modo per poter scrivere dei giovani? Non sarebbe il momento di rinnovare le caratteristiche formali e stilistiche e l’immaginario di questo sottogenere? Che in questo caso sembra risentire troppo della lettura di alcune opere ormai datate, come Jack Frusciante è uscito dal gruppo o Come Dio comanda, e in generale dei Cannibali, sui quali Insolia ha scritto una tesi di laurea.

Certo dispiace parlare così di un’opera prima. Quando si legge un esordio, soprattutto di un autore così giovane, si vorrebbe poter dire solo cose buone, e lasciare le critiche a scrittori con le spalle più forti. Il risultato è che poi di un’opera escano solo commenti positivi, il che produce evidenti distorsioni rispetto alla sua ricezione. Ma, se necessarie, sono proprio le critiche, più delle lodi, a rafforzare uno scrittore esordiente, e a Mattia Insolia va infatti il mio sincero augurio.

Recensione di Giuseppe Rizzi

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Mattia Insolia

1995, Catania

Mattia Insolia, nato a Catania, si è laureato in Lettere a La Sapienza di Roma con una tesi sul movimento letterario dei Cannibali italiani, per poi proseguire gli studi in Editoria.Ha pubblicato racconti di vario genere e scritto per diverse riviste di cultura, tra cui «L'indiependente».Nel 2020, per Ponte alle grazie, pubblica il romanzo Gli affamati, candidato da Fabio Geda al premio Strega 2021.

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