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Storia della letteratura italiana. Vol. 6: Il Settecento. - copertina
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Dettagli

1998
1 maggio 1998
Libro universitario
XII-1030 p., ill. , Rilegato
9788884022301

Voce della critica


recensione di Ricaldone, L., L'Indice 1998, n.10

Nella opzione per il canone tradizionale, che alla ricerca del nuovo e alle mode ideologiche oppone un modello omogeneo, completo e storicamente radicato, consiste il progetto generale di questa "Storia della letteratura" (nove volumi più cinque di appendice), diretta da Enrico Malato, che si pone lo scopo di documentare i percorsi della civiltà letteraria italiana connettendoli alle altre arti e considerandoli nei rapporti con altre culture europee e, quando se ne dia il caso, extraeuropee.
Di fronte a un progetto così globalizzante vien fatto di chiedersi, relativamente al volume settecentesco appena uscito, quale sia il profilo che di un secolo fondante la nostra modernità si è inteso offrire, in una fase di ricapitolazione particolarmente incline ai consuntivi quale è questa nostra di approssimazione alla fine millennio, scadenza alla quale Enrico Malato dichiara nella premessa al primo volume di non essere stato insensibile nel tracciare le coordinate di questa impresa editoriale. Tentiamo una risposta andando prima di tutto alla ricerca di ciò che, nonostante l'intento esaustivo, è stato omesso: l'attenzione alla produzione femminile, per esempio, è molto esigua e affidata alla norma delle antologie convenzionali (si veda il capitolo sull'Arcadia di Anna Laura Bellina e di Carlo Caruso, per altri aspetti istruttivo, dove avrebbe potuto trovare posto qualche riferimento alle ormai numerose antologie di "genere") o al sapere individuale, peraltro assai benvenuto, di qualcuno fra gli studiosi - come Ferdinando Abbri -, che nel tracciare il quadro di riferimento europeo accenna al sorgere della questione del "gender" (peccato però che il discorso si sfrangi rapidamente in considerazioni sulla letteratura erotica); o come Alfredo Stussi, che nel capitolo su Goldoni e l'ambiente veneziano ricorda Luisa Bergalli Gozzi; o Gustavo Costa, che scrivendo della rivoluzione napoletana cita la redattrice del "Monitore", Eleonora Fonseca Pimentel. Dal piano complessivo dell'opera è assente di fatto la volontà di mettere pienamente in luce uno dei fenomeni più vitali e nuovi della nostra storia letteraria e civile.
Questa lacuna altera l'immagine, che per altri aspetti il volume viceversa restituisce, di un secolo laboratorio, fervidamente teso all'esplorazione e alla sperimentazione, un secolo nel quale particolarmente evidente risulta quanto personalità anche non di prima grandezza abbiamo potuto incidere nell'orientare il pensiero e nell'innovare il gusto. Si vedano le pagine di Martino Capucci relative alla prosa narrativa, memorialistica e odeporica, dalle quali emergono il formarsi di un nuovo linguaggio per esprimere paesaggi e sensazioni nuove e il processo costitutivo della critica militante con il conseguente misurarsi dell'autore sempre meno con l'autorità libresca e sempre più con il giudizio del pubblico; e sempre di Capucci si veda l'altrettanto paradigmatico capitolo sugli studi eruditi, ai quali viene restituita l'autentica funzione illuministica di avere sovvertito e dissacrato situazioni secolari.Ma penso anche alla chiave di lettura opportunamente politico-ideologica con cui Marco Cerruti, con la sua nota perizia di scopritore di nomi sconosciuti o dimenticati (come il Giovannantonio De Luca di pagina 672) e di suggeritore di ricerche da compiersi (come la rilettura di Casti), affronta l'intricato itinerario della poesia didascalica, satirica e libertina. E penso infine alle pagine sull'Illuminismo centro-settentrionale, nelle quali Franco Fido interpreta il movimento di pensiero caratterizzante il secolo, differenziandolo attentamente per zone geografiche e cogliendone le eredità evidenti e il patrimonio carsico. Altrettanto ci aspetteremmo dai due capitoli sull'Illuminismo meridionale, i quali invece, per quanto informativi, ambientano con toni non sempre adeguati taluni tra i momenti storici decisivi e fondativi del XVIII secolo.
Per i grandi (Parini, Goldoni, Alfieri), isolati in capitoli a sé e affidati rispettivamente a Gennaro Barbarisi, Alfredo Stussi e Arnaldo Di Benedetto, si è fatto ricorso alla filologia: nel primo caso, nella direzione del riscontro analitico-formale misurato sulla valenza sociale e politica del "Mattino" e del "Mezzogiorno" (alcune pagine di commento al testo sono da manuale per la loro limpidezza e per le connessioni che attivano); nel secondo e nel terzo, nel senso della ricostruzione del percorso letterario interpretato sulla scansione delle edizioni delle opere che si sono susseguite viventi gli autori; con un più di attenzione, da parte di un assiduo studioso degli scritti autobiografici di Alfieri, sulla distinzione tra poesia e vita in un tornante cronologico decisivo per il formarsi di un nuovo individualismo. Evitato il congelamento del medaglione, la scelta empirica permette di comporre tre ritratti mossi e problematici in equilibrio, in alcuni momenti perfetto, tra officina letteraria e individualità potenti.
Pertinente e necessario il capitolo dedicato alla storia della lingua di Luca Serianni (inframmezzato dalle pagine sui grammatici e lessicografi, di Marcello Ravesi) e quello, di Carlachiara Perrone, che esamina le letterature dialettali. Del teatro, grande protagonista del secolo e campo sperimentale per eccellenza, scrivono, calibrandone gli aspetti più strettamente letterari, quelli attoriali e di architettura scenica, Siro Ferrone e Teresa Megale.
Un accenno ancora ai quadri generali: essi vanno dai più ampi (la storia europea, di Aurelio Musi; la cultura europea, di Ferdinando Abbri), al più particolare (la cultura italiana di Saverio Ricci).Vorrei non tralasciare un richiamo al corredo iconografico a temi (la vita quotidiana, il "grand tour" e il vedutismo, il giornalismo), scelto con cura non conformista né banale.
Tra i punti di demerito, oltre ad alcuni refusi e alla misteriosa identità del "piemontese" di cui si scrive a pagina 523, segnalerei invece una svista - grave in verità - che attribuisce a Gasparo Gozzi la paternità delle "Fiabe", come noto in realtà scritte dal fratello Carlo.

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