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Descrizione


«Il mio mestiere di scrivano mi fa pensare a quei castelli di carte che piacciono ai bambini ma crollano a un tremito della mano. Meglio nascere due secoli prima e imitare la signora Kirchgessner, afflitta da cecità ma virtuosa di glasharmonika, che per tutta la vita dilettò le aristocrazie col suo strumento di cristallo. I suoni sono meno ingannevoli delle parole. La mia vita privata posso invece paragonarla a quella di un pesce rosso in una vasca. Ma è un paragone improprio. Chi può escludere che un pesce rosso abbia una fervida immaginazione e un'esistenza avventurosa?» Il libro sarà una sorpresa per i lettori di Luigi Pintor. Dopo sette anni dalla pubblicazione di "Servabo", l'autore ripensa la propria esperienza con più azzardo letterario e sofferenza politica, ripercorrendo eventi pubblici e privati secondo itinerari inaspettati e sconcertanti. Storia e autobiografia vengono ora distanziate vertiginosamente, tradotte in un'amara favola enigmatica. Così la memoria si trasforma in pura musica, nella quale soltanto è possibile dichiarare e annientare le verità più intime.
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Dettagli

1998
Tascabile
6 novembre 1998
148 p., Brossura
9788833911243

Voce della critica


recensioni di Fo, A. L'Indice del 1999, n. 02

Un lettore distante che acquisti questo agile libretto senza nulla sapere del suo autore, magari attratto dal profumato avorio delle pagine, o dall’elegante veste azzurra da cui si sporge il pesciolino ciclope di un acquerello di Serena Di Pietro, si troverà dapprima come avvolto da filamenti di malinconica nebbia. Sono frammenti di memoria che si arrampicano lontani fino a un’infanzia d’inizio secolo, evocati nel segno di una sorta di proustismo miniaturizzato. Frasi minime, minimi capitoli, per grandi spicchi di memoria rincorsi "come le nuvole" con un tratto in apparenza disimpegnato, ma pastoso, ricco di armonici. I fatti sono dati di realtà "non trattati", eppure esposti in modo tale che le rispettive risonanze sentimentali affiorino in autonomia e consegnino al lettore il bandolo per avviarsi lungo il "giusto" orientamento di ciascuna rêverie. Un procedimento che imparenta queste prose con il dire poetico.

Poi, man mano che si valica l’infanzia, la sistematica assenza di notizie precise, di nomi, di luoghi comincia a sollevare perplessità. Sebbene non perda di fascino grazie a questo o quel particolare, il libro, nel suo disegno d’insieme, sembra sfuocarsi. Il lettore si chiede come integrare, e sospetta che, evidentemente, quanto gli risulta qui inafferrabile sia dato per noto in virtù della celebrità dell’autore. La soluzione è più semplice, e meno altezzosa: La signora Kirchgessner viene a completare, come una specie d’album di paralipomeni, il precedente Servabo, Memoria di fine secolo, che Luigi Pintor ha pubblicato nel 1991 nella medesima collanina "Varianti" di Bollati Boringhieri. Resta comunque una specifica inclinazione di Pintor, nell’uno e nell’altro libro, il lavorare "a nascondere", procedendo per macchie di colore che, della singola vita, lascino in evidenza, più che il disegno delle private contingenze, le pertinenze universali. E anzi, in epigrafe a Servabo, si leggeva una frase attribuita a Voltaire che sembra valere al cubo per La signora Kirchgessner: "I libri più utili sono quelli dove i lettori fanno essi stessi metà del lavoro: penetrano i pensieri che vengono presentati loro in germe, correggono ciò che appare difettoso, rafforzano con le proprie riflessioni ciò che appare loro debole".

Abbiamo in realtà a che fare con due libri pensosi, che, mentre cedono "alla tentazione di voltarsi indietro nel desiderio di restituire alle cose una durata che di per sé non hanno" (Servabo), costituiscono un "ricercare" sulle cose ultime, sull’impenetrabile significato dell’esistenza, del male, dell’improvviso troncarsi delle vite o del loro lento declino. Ma i sette anni di intervallo hanno segnato uno scarto rilevante nel corso di questa pensosità: in parallelo, forse, con gli scarti cui si è trovata costretta la linea dei giorni, sotto una esponenziale pressione di lutti e dolore (ancora di recente cresciuta, di là dalle soglie di questo stesso libriccino).

Non sembra dunque sbagliato rivolgersi dalla Signora al Servabo, per rintracciarne qui le radici e comprenderne, così, meglio lo specifico profilo.

Bene, in Servabo l’esercizio del volgersi indietro a "conservare" delinea i principali eventi dell’esistenza di Pintor: l’infanzia in Sardegna, la scomparsa del padre e dello zio generale, la guerra mondiale con la morte del fratello Giaime, l’esperienza partigiana e la condanna all’esecuzione capitale, sventata in extremis dall’ingresso degli alleati in Roma.Poi il matrimonio, la paternità, la generosa militanza giornalistica all’"Unità", lo strappo con il partito comunista, la radiazione, la fondazione del "Manifesto", la malattia e la morte della moglie: "Come da un osservatorio astronomico si guarda al cielo, così dalla mia postazione mi affacciavo su un grande scenario e credevo di partecipare al moto degli astri mentre sedevo a una macchina da scrivere".Al telescopio del narratore risultava evidente che "ci sono due mondi" tendenti a confondersi "in quello peggiore": quello dei soprusi, delle violenze, dell’iniquità.Con un impegno quotidianamente rinnovato egli prende il partito degli oppressi, dei "perdenti", sta – come direbbe Sandro Sinigaglia
– "per consanguineità coi vinti" (Poesie, Garzanti, 1997; cfr. "L’Indice", 1998, n.4), e nutre fiducia nel fatto che l’impegno politico per difendere la loro causa renda degna la vita e almeno in parte la illumini di nobiltà e di ideale.Traumatizzato dalle vicende personali, Pintor tende a concepirsi come un uomo senza qualità, un minore rispetto al padre, al fratello, ai musicisti autentici, ai compagni di cospirazione antifascista, ai coetanei "buoni genitori". Questo "minore" – cui è toccato il destino, non scevro d’amarezza, di una più lunga durata – si autoconfigura come un "gregario", ma serba netta la consapevolezza che tale ruolo riscatta la sua umiltà proprio nella qualità della funzione sociale: "non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi".

La signora Kirchgessner deve il titolo a qualche breve epifania, fra le pagine, di Sofia Kirchgessner, "afflitta da cecità ma virtuosa di glasharmonika, che per tutta la vita dilettò le aristocrazie col suo strumento di cristallo".Uno strumento qualificato come "flebile": ciononostante, per l’aggraziato tocco di Sofia "scrissero Mozart e Beethoven"; e comunque "i suoni sono meno ingannevoli delle parole".

Ora Pintor aggiunge al precedente mosaico qualche sviluppo collaterale, e sobriamente lo aggiorna (fra l’altro, con lo smarrimento di fronte al perdersi e morire di un figlio).Ma l’azione del dolore personale, combinata con l’invadenza degli orrori del mondo
suscettibili ormai di una classificazione in termini di scala sismica, sembra aver incrinato le fondamenta stesse di Servabo.E neanche più l’azione al fianco degli umili, il gesto del gregario in quanto simbolo di uno schieramento, dell’intenzione politica di agire su questa realtà, pare più schiudere una luce di positività.Perfino il precetto cristiano dell’amore per il prossimo finisce per venir guardato di traverso come "apoteosi egocentrica" di uno sterile, narcisistico autocompiacimento.

Tuttavia, un bilancio di questo libro umorale e drammatico, in cui il "gregario" è tentato al contempo dall’autodistruzione e da un ineluttabile istinto di sopravvivenza, risulterebbe sperequato se non si richiamasse l’attenzione anche su ciò che tende a smentire gli scoramenti: un qualche antidoto che vorrebbe soprattutto essere spremuto dalle ultime pagine.La Signora finisce per suggerire, flebilmente, che non solo si può, ma forse addirittura si deve "cedere alla tentazione" di voltarsi indietro.Come nel finale dell’Educazione sentimentale di Flaubert (o, sugli schermi, di C’era una volta in America): voltarsi, e rintracciare un momento attorno a cui la vita possa fissare la sua orbita in un che di compiuto, di armonioso e definibile (si oserebbe) come felice.Pintor muove questo passo soprattutto a livello concettuale, nel momento in cui alla dolente desolazione della Signora appone un’epigrafe di Anonimo che sembrerebbe campirsi in esergo per antifrasi e gusto della provocazione: "Si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo".E con questo ritorno (all’inizio materiale del libro e al cuore ideale della propria esistenza) siamo sul livello alto dei principi e dei valori.Ma, a ben guardare, muove un simile passo anche sul concreto piano del narrato, laddove titola (capitolo IV) Aladino. E in questo caso il momento rilevato della vita – l’entonces della bambina basca per Delfini, per Pizzuto il ritorno al palazzo panormita dei Quattro Canti sulle amichevoli spalle di Felice Chilanti e Vanni Scheiwiller, per Ripellino il "siete un poeta georgiano?" con cui Pasternàk lo salutò al loro primo incontro – si inscrive nella serie flaubertiana di quegli attimi apparentemente insignificanti, ma "in asse", cui non si sarebbe pensato di assegnare in seguito la statura di un simbolo.
E – innestando la Signora nella grande storia di un oggetto dimesso (destinata a venir narrata altrove) – si materializza in una "partita a bottoni fra le pareti domestiche", quelle della "casa crollata", quando le otto squadre, risultanti da un calciomercato attivo fra le mercerie e gli oculati saccheggi casalinghi, animavano sul tavolo macchiato della sala un campio-nato fra due fratellini votato –
come il Circo Massimo per gli antichi (Cassiodoro, VariaeIII 51, 9-10) – ad abbracciare nella sua integrità, per allegorie segrete, quel Cosmo da cui mai ci si vorrebbe spiccare.

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