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La principessa delle ombre
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1992
160 p.
9788809202580

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rossana
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Una storia commovente e scritta con grande abilità letteraria. Questa testimonianza è molto diversa dalle altre che ho letto. In primo luogo,è scritta in terza persona come se l'autrice volesse creare un distacco tra lei, donna ormai adulta, e quella bambina di soli 14 anni rinchiusa nei campi di sterminio. Inoltre, la storia, oltre a non seguire un ordine cronologico dei fatti, è più che altro una autobiografia interiore, si potrebbe dire, un'autobiografia dei sentimenti.

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Voce della critica


recensione di Chiarloni, A., L'Indice 1993, n. 1

"Nel lager non mi sentivo affatto ebrea. Anzi mi dicevo: sono qui per sbaglio, cosa ho a che fare con tutti questi ebrei, io che sono una bambina tedesca e cattolica?" A quarant'anni di distanza dall'esperienza di Auschwitz la Edvardson rievoca la sua storia nel corso di un'intervista rilasciata alla "Faz": figlia naturale della scrittrice renana Elisabeth Langgässer (1899-1950) Cordelia cresce nella Berlino cattolica e altoborghese degli anni trenta, del tutto ignara della "gogna impressa nella carne", inconsapevole cioè di essere di origine ebraica per parte di padre, una "diversità" che nel 1943, appena quattordicenne, la conduce alla deportazione. Scampata fortunosamente alle camere a gas grazie all'intervento della Croce Rossa svedese, sarà solo molto più tardi - con l'acquisizione profonda di un'identità ebraica e, successivamente, israeliana - che Cordelia approda alla narrazione di quella terrificante esperienza infantile.
Un racconto a distanza, in terza persona, segnato dallo scarto linguistico: Cordelia usa cognome e linguaggio acquisiti nel dopoguerra, in terra svedese. È un commiato definitivo dalla Germania e dalla lingua dell'infanzia. Nel testo il tedesco riaffiora bensì nei frammenti di citazioni classiche e negli spezzoni di un lessico familiare, ma anche negli ordini sferzanti dei nazisti. Lo svedese resta pertanto la cifra di un esilio volontario dal linguaggio del carnefice.
Se poi si guarda al titolo originale - "Bimbo scottato cerca il fuoco" - s'intuisce un secondo commiato, quello dal paese che accolse l'autrice nel 1945. Ribaltando un detto popolare - chi si brucia teme il fuoco - la Edvardson suggella la scelta esistenziale del 1973, a ridosso della guerra del Kippur, di abbandonare l'innocente paesaggio svedese per trasferirsi a Gerusalemme. Chi ha abiti e capelli impregnati dell'odore dei forni crematori è votato alla memoria dell'orrore, annota l'autrice. Può reimparare la mimica della vita, amare, avere dei figli ma resta estraneo a una terra come la Svezia, "pagana e senza storia", che non conosce le ferite aperte della guerra. "Nessuno scheletro con i segni della tortura, nessun teschio con i buchi della mascella al posto dei denti strappati, nessun cadavere emaciato d'infante. In mezzo a tanta innocenza le divenne difficile respirare, e capì che doveva andarsene".
Tenuto conto che la terza parte, dedicata a Israele, è costituita da tre pagine in tutto, la scelta del titolo italiano non può essere definita di per sé fuorviante. Certo, l'editore sposta l'orizzonte di lettura su una figura ricorrente nel testo, quella di Proserpina, regina e prigioniera dell'Ade, ricollocando la scrittura di Cordelia nel tumultuoso alveo materno: "Proserpina" è infatti il titolo di una novella della Langgässer. D'altra parte è proprio il complesso rapporto con la madre - "quella madre sola, tormentata, violentata dalle proprie visioni" - che conferisce a questo breve racconto autobiografico il sapore di una tragedia classica.
Con le leggi razziali Cordelia, pecca segreta della giovane e avvenente scrittrice, è costretta a portare la stella gialla. A nulla serve che la Langgässer si sia nel frattempo sposata con un biondo ariano. La bambina diventa un peso ingombrante, una minaccia. La si sposta presso amici, in campagna. Il crescendo dei provvedimenti contro gli ebrei è registrato da uno sguardo infantile, inerme e fiducioso. Cordelia è cattolica, ha fatto la comunione, sogna tulli bianchi e fiori nei capelli, vuole entrare - come le compagne - nel Bmd, la gioventù femminile hitleriana. Viene, invece, espulsa da scuola, confinata come un'appestata nell'ospedale ebraico: l'ultima stazione prima di Theresienstadt. Inutile anche l'estremo, spericolato tentativo della Langgässer di cedere la figlia - con un'adozione pro forma - a una coppia di domestici spagnoli, un espediente che minaccia di travolgerla con l'accusa di tradimento. Le pagine in cui Cordelia, convocata dalla Gestapo, è costretta a scegliere tra rivolta individuale e amore filiale sotto lo sguardo muto e atterrito della madre danno il segno della radicale solitudine del singolo espulso dal consesso umano: "Nessuno disse una sola parola, non era necessario dire nulla, non c'era scelta, non c'era mai stata alcuna scelta, lei era Cordelia, la fedele, ed era anche Proserpina, era la prescelta, e mai era stata più vicina al cuore di sua madre". Qui s'innesta un meccanismo di sopravvivenza interiore: l'abbandono viene vissuto come elezione, l'essere scartata dalla famiglia e dal mondo si trasfigura nel segno del martirio. Molto si è scritto sulla rassegnazione degli ebrei di fronte alla violenza nazista. Ma nella ricostruzione della Edvardson la genealogia della sopportazione ha una radice inequivocabilmente cattolica: come dono d'addio la madre consegna alla figlia - "agnello sacrificale" - una piccola croce d'argento antica poi, col marito, la segna sulla fronte. "Un segno di sacrificio o di salvazione?" si chiede Cordelia. Ma Auschwitz e la 'Schreibstube' alla quale essa verrà assegnata - il luogo in cui avviene la meticolosa selezione delle cavie umane di Mengele - cancellano qualsiasi risposta, qui le parole "cadono come pesanti pietre morte nel Nulla insaziabile e senza fondo".
Progressivamente il lager determina un'acquisizione dell'identità ebraica, un approdo ad un diverso ordine simbolico. Il "patto segreto" con la madre, denso delle divoranti carezze infantili, si dissolve nella cenere dello sterminio. Le categorie della risurrezione mistica sono spazzate dall'imperativo etico della memoria collettiva nel dolore. Dopo la guerra, in Svezia, la Edvardson abbandona il cattolicesimo per l'ebraismo: un primo tentativo di spezzare il cordone ombelicale col passato ma anche un rifiuto di sanare le coscienze attraverso un oblio conciliante e pacificato. In chi sopravvive resta infatti "una collera selvaggia", un sentimento che rischia di diventare "un coltello lampeggiante da conficcare nel cuore della madre". Sono parole queste, che implicano una fuga dalla doppia morsa della carne e della scrittura materna, una ricerca di indipendenza figurativa rispetto alla cultura cattolica della "guarigione". Dal canto suo la Langgässer, che dopo la guerra conosce in Germania uno strepitoso successo, lavora a un romanzo sulla deportazione e chiede alla figlia una relazione "precisa fin nei dettagli" sulla vita ad Auschwitz da riplasmare in veste letteraria. Una richiesta che sembra giungere da un altro pianeta. Non stupisce che Cordelia più tardi, quando leggerà il romanzo - si tratta di "Märkische Argonautenfahrt" -, non riconosca i propri ricordi: "Si parlava del fuoco ma si taceva della cenere. E come poteva essere altrimenti - era stato scritto da una persona viva". Nel testo successivo - "Ricomporre il mondo" (1988) - la Edvardson ritorna alla dolorosa necessità di un congedo dall'"odiata-amata" figura materna rovesciando l'immagine del parto: "Questo è un addio. Ti ho portato in cuore, incinta di te, per quasi sessant'anni, e il mio cuore si è fatto così pesante... Ora, ora mi potrei sgravare e recidere finalmente il cordone ombelicale".
Dall'intervista citata emergono in maniera netta le motivazioni più propriamente politiche collegate al commiato dalla cultura di provenienza. La Edvardson rifiuta infatti l'ideologia della riconciliazione e con essa la comoda formula assolutoria dell'"anno zero". È interessante notare come l'autrice risponde ai recensori dell'edizione tedesca de "La principessa delle ombre" che - sia detto per inciso - tendono spesso a rassicurare il lettore presentando il testo come espressione di un perdono. "E come potrei arrogarmi io il diritto di una riconciliazione?", replica la Edvardson. "Non si tratta oggi di gettarsi al collo piangendo e perdonando, bensì di voltarsi indietro per guardare in faccia l'orrore del passato". L'autobiografia è la testimonianza di questa divaricazione: da una parte le categorie del "confronto religioso" e del "cancellare per andare avanti", dall'altra l'appello alla memoria del sopravvissuto. La cui "vita è ridotta in schegge e frantumi, e quando cerca di ricostruirne il mosaico si ferisce con i loro margini taglienti".

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