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Non c'è sull'etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo - Felicity Lawrence - copertina

Descrizione


Non ci fidiamo più di ciò che mangiamo. Sbandiamo da una paura all'altra, mentre nel mondo le coltivazioni sono in crisi. Una manciata di rivenditori e fornitori ha un controllo senza precedenti su alimenti che sono il più delle volte adulterati. Felicity Lawrence segue in giro per il mondo la storia di alcuni dei cibi più comuni della nostra tavola, dalla fattoria fino all'industria e il bancone del supermercato; e scopre perché gli gli scarti del manzo finiscono nei polli, perché un terzo delle mele prodotte viene distrutto, perché i vini hanno spesso lo stesso sapore... Senza tralasciare quegli intricati effetti della globalizzazione che sommano lo sfruttamento dei lavoratori ai danni ambientali.
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Dettagli

2005
29 marzo 2005
XIV-263 p., Brossura
9788806173067

Valutazioni e recensioni

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maurizio crispi
Recensioni: 5/5

E' un saggio giornalistico dall'altissimo contenuto informativo, costruito attraverso una serie di inchieste sviluppate dall'autrice, spaziando a pieno campo nell'intero settore dell'industria agro-alimentare inglese: delle inchieste coraggiose che hanno richiesto all'autrice, in alcuni casi, di infiltrarsi sotto copertura, come lavorante, in alcune aziende alimentari e a lottare per convincere persone informate sui "misfatti" adulterativi, regolarmente portati avanti all'insegna del profitto, a rilasciare le loro dichiarazioni (in rigoroso anonimato). L'autrice, anzichè disperdere le sue energie in una contro-informazione generica, esamina approfonditamente alcuni cibi di base (pollo, caffè e fagiolini, pane, pasti confezionati, per citare alcuni dei capitoli), raccontando per ciascuno di essi l'intera filiera di produzione e mostrandone i punti di criticità e quelli in cui, per accrescere il profitto delle potenti corporation che gestiscono il settore della grande distribuzione, vengono messe in opera scientifiche adulterazioni (arricchirsi vendendo acqua e grassi di bassissimo contenuto nutrizionale). Ciò che l'autrice racconta è particolarmente vero per l'Inghilterra, dove la piccola distribuzione è stata completamente azzerata dai grandi interessi commerciali e dove i piccoli produttori sono letteralmente strangolati dalle esigenze del mercato: ciononostante è utile anche per chi vive in altri contesti, perchè fornisce delle indicazioni precise sulle cose da cui bisogna difendersi e sulle direzioni da cui, nel prossimo futuro, c'è da attendersi dei colpi insidiosi. L'autrice auspica un ritorno a condizioni di alimentazione più salubri e, a tal fine, indica alcune strategie da seguire, non facili e non economiche: in fondo, realizzabili attraverso l'attivazione di strumenti "conviviali" (nel senso proposto da Ivan Illich). In Italia, fortunatamente, il movimento Slow Food è un felice esempio di come si possano salvare i valori d'una nutrizione salubre e rispettosa dei valori culturali della tradizione.

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Emanuele
Recensioni: 5/5

Indagine estremamente particolareggiata e documentata sull’o stato dell’arte del settore alimentare, da parte della Lawrence, giornalista del Guardian (UK), la quale espone con piglio e con grande conoscenza, anche tecnologica, quanto di “buono” ci viene sempre più spesso spedito sulle nostre tavole. L’autrice si occupa da circa vent’anni dell’argomento e molto spesso ha anche lavorato in alcuni campi del settore, ed ha realmente cognizione di causa su quanto va ad affermare. Ricchissima la bibliografia ed i rimandi webliografici, che se con pazienza vengono visitati, rendono il quadro estremamente completo e permettono a chiunque, anche ai più sapienti e/o sapientoni di rendersi conto della situazione e di quanto risulti ipocrita l’affermazione :“Soddisfare il bisogno del consumatore!” E’ suddiviso per sezioni, nel senso di varie tipologie d’alimenti, e non è da trascurare anche la parte riguardante la condizione lavorativa del personale, spesso stagionale ed extracomunitario, che versa sempre più in uno stato di ghettizzazione e mobbing, a causa anche della lingua del paese in cui emigra e che non conosce se non solo superficialmente. Spesso anche il consumatore è involontario agente di quanto accade nel settore in questione, grazie alla sua ricerca di cibi a costo sempre più basso, ed anche sempre più trasformati, che dovrebbero rendergli la vita più facile e comoda, senza pensare minimamente alla sostenibilità dei processi produttivi che vi girano intorno, invece della maggior economia e sicurezza nel caso di preparazione in proprio. In definitiva leggendolo è possibile approfondire l’argomento con informazioni che sicuramente non vengono dibattute e rese pubbliche sugli altri mezzi di comunicazione. Vivamente raccomandato! Voto :5/5 Emanuele : dnb.recen@libero.it

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ANGELO
Recensioni: 4/5

E'SCRITTO DA UNA GIORNALISTA INGLESE CHE PARLA DELLE CONDIZIONI ALIMENTARI DEL SUO PAESE, MA NON DOBBIAMO CADERE NELL'INGANNO CHE, DA ITALIANI, LA COSA NON CI RIGUARDI. ANZI: CHIEDIAMOCI QUANTO LA PUBBLICITA' E LA GRANDE DISTRIBUZIONE ABBIANO CONDIZIONATO LE NOSTRE SCELTE DI VITA. MA NON SOLO... LE SORPRESE SONO DIETRO AD OGNI PAGINA DEL LIBRO E LA SOLUZIONE DI TUTTO CE L'ABBIAMO SOTTO CASA. LEGGERE PER SAPERE.

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Voce della critica

Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè? Se sulla pastasciutta Felicity Lawrence non si pronuncia (e, tutto sommato, c'è di che essergliene grati), il resto del pranzetto rischia di restare sullo stomaco al lettore. Già, perché la carne del pollo – un disgraziato mutante ignoto a Linneo – può facilmente contenere, oltre a oceani d'acqua, proteine bovine e suine, e magari anche qualche virus, specie se a commercializzarla è un tizio dall'evocativo soprannome di "Pete il Cagnotto". Quanto all'insalata, magari è stata coltivata sotto ettari quadrati di plastica, a suon di pesticidi, anche grazie al sottopagato ausilio di un esercito di sventurati che, letteralmente, abitano nelle avvelenate discariche della nostra opulenta Europa, avvolti nella plastica anche loro, come cavernicoli del ventunesimo secolo. Il prezzo del caffè nella tazzina, dal canto suo, provocherebbe lacrime di costernazione in più di un produttore ugandese.

Cambiare menu può produrre risultati altrettanto inquietanti sulla digestione, se si pensa che i gamberi nel proprio piatto in certi casi hanno assunto più farmaci di un club di ipocondriaci, o che la frutta di una coppa di macedonia forse ha totalizzato più chilometri dell'Apollo 11. Beviamoci sopra. O magari no, sapendo che almeno un'azienda "ha trovato il modo di trattare il fumo di quercia rendendolo liquido per aggiungerlo al vino" e che, a detta degli incaricati, "tutti sono molto entusiasti del sapore". L'unico problema, chissà come mai, è la legge.

E adesso, non facciamo gli italiani. È inutile trincerarsi dietro il fatto che Lawrence è una giornalista inglese e che non sempre le situazioni che descrive ci appartengono del tutto. E altrettanto inutile è innalzare barricate di tortellini, pizza, pesto o tiramisù amorevolmente preparati in casa, a mano, da schiere di nonne, mamme o amici cari. A voler essere onesti, spesso anche da noi cucinare significa in realtà "sbattere" per due minuti della "roba" nel microonde. E chi mai, se non forse un chimico, ha voglia di leggere quelle sfilze fitte fitte di ingredienti, sigle, additivi sul retro delle confezioni? Si corre a far la spesa, mica in biblioteca. Anche da noi impera la comodità globalizzante del supermercato, perché ci si trova sempre tutto e perché si riesce magari a risparmiare qualcosa (sapere dell'esistenza del lardo di Colonnata o di altre consimili squisitezze non significa potersele permettere). Anche da noi, infine, le accidiose abitudini al precotto, pretagliato, prelavato stanno dilagando. Quelle al gassato, fritto e salato sono già da tempo un dato acquisito specie, ed è allarmante, fra bambini e ragazzi.

Il libro di Lawrence si occupa per l'appunto di illustrare che non sono affatto buone abitudini: hanno corollari gravi e gravissimi sulla salute nostra e del pianeta, portano inquinamento, povertà, criminalità. Portano malattie, anche, da quelle più scontate, come il diabete, l'obesità o l'infarto, a quelle in forte espansione, come la celiachia, a quelle meno facilmente riconducibili all'alimentazione, come certi disturbi della personalità. Questo il messaggio di fondo di un volume che, in sei capitoli dedicati ciascuno a un tipo di cibo fra i più comuni (pollo; insalata; fagiolini; pane; mele e banane; caffè e gamberi; piatti pronti), spiega con pacatezza, ma anche con dovizia di particolari, che forse sarebbe il caso di fare un po' più di attenzione a quello che comperiamo e mastichiamo. C'è però un ingrediente in più, che trasforma imprevedibilmente l'ennesima inchiesta per aspiranti dispeptici in un libro di gradevolissima lettura, magari anche scolastica. Si tratta dell'autrice. Felicity Lawrence ha uno stile delizioso, catturato fra l'altro da una buona traduzione italiana, e molta misura nel trattare argomenti e persone. Quando racconta di miserie umane ai limiti del concepibile, lo fa con simpatia, ma senza buonismo né ombra di retorica. Quando denuncia carenze legislative e prassi assurde, lo fa senza strillare e senza pontificare. Quando indica un pericolo, non intona il dies irae. Quando spiega che, lei in prima persona – lavoratrice, moglie e madre di tre figli – ha imparato un po' alla volta a fare la spesa in modo diverso, non pretende con ciò di salvare il mondo, e nemmeno le mangrovie.

Inoltre, Lawrence è una giornalista come la può sognare un bambino: se indaga sulla carne, ecco che va a lavorare in incognito in un grande stabilimento avicolo dove, mimetizzata fra certe indimenticabili donne del Devon, confeziona (malissimo) qualche pollo e tiene occhi e orecchie bene aperti. Se vuol sapere degli ortaggi di serra, la ritroviamo in Spagna, mentre va in Africa a prendere il caffè e a Parigi a documentarsi su pietanze futuribili e additivi impensabili, come l'aroma di funghi spray, da spruzzare sul risotto. Con una naturalezza disarmante, che si tratti di ministri e industriali o di vecchiette pensionate ed extracomunitari sfruttati, riesce a parlare davvero con tutti. Quasi tutti, per inciso, finiscono con l'offrirle almeno uno spuntino.

E poi, sarà che si chiama Felicity, ma non perde proprio mai il suo humour britannico. Per esempio, durante la visita a uno stabilimento di panificazione, le propongono dei tramezzini di pane bianco e prosciutto: "– È il vostro pane? – domandai mentre davo il primo morso. – Certamente. – Il pane fece quella curiosa operazione che fanno tutti i tipi di pane industriale: si spalmò sui denti e sul palato e si fissò in quella posizione come la pasta del dentista. Decisi di non domandare nulla sul prosciutto e cominciai furtivamente a lavorare di lingua sperando di rimuoverlo senza sembrare troppo scortese". Sembra Wodehouse, e fa sì che il lettore non scordi più che cos'è un procedimento Cbp. O un Map, o un omega-3. Sono informazioni che possono rivelarsi davvero utili, la prossima volta che ci si ritrova a spingere freneticamente un carrello.

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