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Riposte armonie. Lettere di Federigo Enriques a Guido Castelnuovo - copertina
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Riposte armonie. Lettere di Federigo Enriques a Guido Castelnuovo
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Descrizione


Le quasi 670 lettere scritte da Enriques a Castelnuovo tra la fine del 1892 e il 1906, costituiscono in primo luogo una testimonianza unica della loro ventennale collaborazione scientifica, ma soprattutto rappresentano una importante documentazione per la conoscenza della scuola di geometria algebrica. La trascrizione delle lettere è accompagnata da un apparato critico e da un'appendice in cui si riportano lettere di altri matematici particolarmente significative per il rapporto con la comunità matematica europea.
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Dettagli

1996
XXXVI-730 p., ill.
9788833909899

Voce della critica


recensione di Vesentini, E., L'Indice 1997, n. 3

Nel 1951, in un'aula di Fine Hall, a Princeton, si discuteva di algebra e di geometria algebrica.
"Impossibile!". Così Emil Artin, un illustre matematico tedesco emigrato negli Stati Uniti prima del secondo conflitto mondiale, reagiva all'affermazione che attribuiva alla cosiddetta scuola italiana - nella fattispecie a Francesco Severi - la dimostrazione di un risultato di geometria algebrica. Al di là delle scarse simpatie che i trascorsi politici di Severi potevano suscitare nell'America del dopoguerra e in chi, come Artin, era fuggito dalla Germania nazista, la reazione di quest'ultimo non sorprese nessuno, e non era, peraltro, campata in aria. Le fondamenta della teoria costruita, tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del nostro secolo, da Corrado Segre, Guido Castelnuovo, Federigo Enriques, Francesco Severi, Michele De Franchis, Gino Fano, presentavano lesioni preoccupanti, messe in evidenza, già negli anni trenta, da polemiche vivaci con gli algebristi tedeschi e da aspri dissidi all'interno della stessa scuola italiana. Questi non erano - o non erano sempre - scontri personali, ma rilevavano l'inadeguatezza dei fondamenti, sottolineata, a sua volta, dall'incapacità della teoria di dare risposte coerenti ai problemi nuovi che si andavano via via ponendo. D'altra parte, l'edificio costruito dai pionieri esisteva, sopravviveva alle scosse, e mostrava a tutti quell'"ordine di armonie più riposte ove rifulge una meravigliosa bellezza", cui allude Enriques nel suo libro postumo: "Le superficie [sic] algebriche" (Zanichelli, 1949).
Vista oggi, l'opera di Castelnuovo, dello stesso Enriques, di Severi, può sembrare a qualcuno una specie di "geometria del sommerso", un'iniziativa scientifica sviluppata in una sorta di extraterritorialità rispetto ai canoni tradizionali del rigore. I risultati conseguiti, con la loro originalità ed eleganza, si imposero all'attenzione della comunità scientifica e, nei decenni seguenti, non poterono non essere accettati, sia pure a denti stretti, dall'"establishment" accademico accreditato. Jean Dieudonné, descrivendo nel 1974 gli sviluppi iniziali della geometria algebrica, intitolava "Développement et chaos" il capitolo dedicato, fra le altre cose, alla scuola italiana. Forse con maggiore equilibrio, nel 1946 André Weil identificava nel ricorso spregiudicato all'intuizione il tratto saliente del contributo dei geometri italiani, e scriveva che "per quanto imprudente possa talora sembrare, (...) quell'intuizione poggia sovente su uno studio accurato di una quantità di esempi speciali, dai quali essi [i geometri italiani] acquistano una conoscenza che non si trova sempre fra i moderni rappresentanti del credo assiomatico".
La frase di André Weil potrebbe essere un epitaffio appropriato a questo volume, che raccoglie, in più di settecento pagine, le 668 lettere che Federigo Enriques scrisse a Guido Castelnuovo fra il 1892 e il 1906: una delle due voci - quella di Enriques - in un dialogo epistolare che ha segnato quasi quotidianamente la nascita e i primi passi della geometria delle superfici algebriche. Se fosse stato possibile conoscere l'intero dialogo aggiungendo le lettere di risposta di Castelnuovo a Enriques (lettere andate irrimediabilmente perdute, a quanto è dato sapere), si disporrebbe del giornale di bordo di un'avventura intellettuale inebriante, che ha disegnato, nel breve arco di quattordici anni, le linee di sviluppo di una parte considerevole della ricerca algebrica e geometrica di oggi. Si coglierebbe dall'interno l'affaccendarsi di due artigiani intorno ai dettagli di un affresco che ancora non percepiscono, ma che si disvela improvvisamente nella sua interezza, e la cui armonia sembra cogliere di sorpresa i suoi stessi autori. Un quadro che - come scriverà Enriques nel 1945 - suscita "un senso di reverenza per quell'ordine meraviglioso degli enti matematici che il pensiero trova innanzi a sé e quasi raccoglie, al pari delle specie viventi, dalla Natura Madre".
In questa visione classificatoria, quasi linneiana, della geometria delle superfici algebriche prevale un approccio fortemente pragmatico, lontano dal credo assiomatico cui alludeva André Weil, e per il quale gli strumenti dell'indagine devono essere commisurati al problema sul tappeto e a quel "grado di generalità che è il primo grado in cui il problema stesso rivela la sua vera natura", come scriveva Enriques nella prefazione ai quattro volumi sulla "Teoria geometrica delle equazioni e delle funzioni algebriche" (Zanichelli, 1915-1934), redatti in collaborazione con Oscar Chisini.
Secondo alcuni, la percezione dei limiti e dei rischi di questa impostazione epistemologica ha motivato, almeno in parte, il distacco (maturato proprio intorno al 1906) di Guido Castelnuovo dalla geometria delle superfici algebriche, e l'accendersi in lui dell'interesse per altri studi: il calcolo delle probabilità, la relatività generale... A un esame più attento, questa presa di distanza si rivela, peraltro, soltanto esteriore. Le "Note aggiuntive" inserite da Castelnuovo nel volume di "Memorie scelte" (Zanichelli, 1937), che egli stesso coordina in occasione del suo settantesimo compleanno, testimoniano l'attenzione che egli ha continuato a dedicare agli sviluppi della geometria algebrica. In realtà, questa presa di distanza, se proprio se ne vuole parlare, è legata all'ampliarsi degli interessi culturali e scientifici di Castelnuovo: al prevalere in lui, come in Vito Volterra e - sia pure su un piano diverso, ma ancora più intensamente - in Federigo Enriques, di una visione unitaria del progresso scientifico e sociale. Toccheranno proprio a Castelnuovo, alla fine della seconda guerra mondiale, precise responsabilità - quale commissario del Consiglio Nazionale delle Ricerche e presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei - nella ricostruzione della vita scientifica e culturale del paese.
Profondamente diverso è l'itinerario di Enriques nell'ambito della metodologia della ricerca. Le questioni della teoria della conoscenza (alle quali dedica un ciclo di conferenze a Bruxelles nel 1902 e vari corsi liberi dal 1901) restano al centro della sua attenzione per tutta la vita, e si intrecciano con istanze filosofiche di più ampio respiro e con problemi concreti della pedagogia della matematica. La questione del "giusto grado di generalità" in cui un problema di ricerca rivela la sua vera natura, e va quindi affrontato, ricompare a più riprese nelle sue opere, matematiche e non matematiche: nel libro postumo sulle superfici algebriche, quando, ad esempio, allude a "un'ipotesi che non viene sufficientemente dimostrata"; in uno dei saggi di "Scienza e razionalismo" (Zanichelli, 1912; ristampa anastatica, 1994), dedicato a "Il principio di ragion sufficiente nella costruzione scientifica". Principio che, come ricorda Enriques citando Leibniz, fu impiegato già da Archimede "postulando che una bilancia caricata con pesi uguali deve essere in equilibrio, perché non vi è ragione che scenda da una parte piuttosto che dall'altra". Nel saggio, Enriques esamina l'uso che, consciamente o inconsciamente, si fa del principio di ragion sufficiente in varie questioni della fisica (ad esempio, nel principio di simmetria di Pierre Curie) e della chimica. Il riferimento al "giusto grado di generalità", cioè al livello di generalità al quale è legittimo - secondo Enriques - applicare il principio di ragion sufficiente nelle dimostrazioni matematiche, comparirà esplicitamente qualche anno più tardi, ma è già implicitamente presente nelle lettere a Castelnuovo.
Oggi che, con il ruolo crescente dei computer nella teoria dei modelli, si discute sempre più spesso della cosiddetta matematica sperimentale, la pur controversa visione di Enriques torna di attualità e rivela ancora una volta la fantasia, il coraggio e la spregiudicatezza intellettuale di uno dei maggiori matematici di questo secolo.

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