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Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione - Luciano Gallino - copertina
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Descrizione


Il drammatico problema dell'occupazione è esaminato da Gallino nelle pagine di questo studio. La prima parte del volume affronta la critica dei più vieti luoghi comuni che circolano in tema di sviluppo e occupazione. La seconda descrive le attuali vie attraverso le quali il lavoro viene eliminato dai processi tecnologici e organizzativi. Un'ultima, infine, tiene conto anche delle recenti discussioni sul terzo settore, delinea alcune proposte su vari modi di creare occupazione, che l'autore si augura possano venire accolte dalle forze sociali non certo quali ricette, ma per lo meno quali temi di discussione per istruire l'agenda d'una politica nazionale di lungo respiro per l'occupazione.
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Dettagli

1998
1 gennaio 1997
9788806143633

Voce della critica


recensioni di Contini, B. L'Indice del 1999, n. 02

Cos'è la società dei quattro quinti? Con la consueta lucidità, e col suo stile essenziale, sobrio, non-accademico, prodigo di esempi, lo spiega Luciano Gallino nel suo nuovo libro, Se tre milioni vi sembran pochi: tre milioni (un po' meno) sono i disoccupati ufficiali, ma l'enfasi non è tanto su quelli, quanto - appunto - sulla società dei quattro quinti. Il libro, prevalentemente rivolto ai non addetti ai lavori, è assai consigliabile proprio a chi dei lavori e di lavoro si occupa, pensa e scrive. A tutti questi, a tutti noi, Gallino rimprovera una prospettiva corta. La società italiana si avvia verso un assetto in cui solo venti persone su cento saranno impegnate in lavori stabili, intellettualmente stimolanti ed economicamente profittevoli. Gli altri ottanta (i quattro quinti) sono destinati a restare ai margini del mercato del lavoro, impegnati in lavori e lavoretti di breve durata, mal pagati, privi di contenuto formativo, costretti a forme di precariato, di sottoccupazione, e di disoccupazione tout court.

Viviamo in tempi in cui cambia rapidamente la concezione stessa del lavoro. Le avvisaglie sono sotto i nostri occhi: i nuovi lavoratori, quando sono assunti, lo sono con contratti a tempo determinato (e, solo in alcuni casi, verranno trasformati a tempo indeterminato); moltissimi tra i fortunati che trovano un impiego lavorano con contratti di consulenza, come lavoratori autonomi anche se, in pratica, assolutamente subordinati; un numero crescente è impegnato nel tele-lavoro, formidabile soluzione tecnologica, ma cupo e desocializzante; è sempre più folto l'esercito di giovani, più o meno istruiti, demotivati e sconfortati, che si arrabatta facendo lavoretti di poco conto in grigio o in nero, quando e dove capita, senza imparare nessun vero mestiere. Si assottiglia anno dopo anno l'occupazione nella grande industria, solo in parte riequilibrata dalla creazione di posti nelle piccole imprese. Guai a pensare, dice Gallino, che l'occupazione sia un mero fatto economico: "il lavoro rimane, ed è destinato a rimanere per generazioni, un fattore primario di integrazione sociale. È il filo più robusto (...) che tiene insieme individui, comunità e società. Purché il lavoro abbia certe caratteristiche (...) stabile, dignitosamente retribuito, discretamente interessante, e svolto in condizioni compatibili con i diritti della persona alla salute, alla sicurezza, al rispetto". Quindi la società dei quattro quinti è ad alto rischio di disintegrazione sociale, e questo è il motivo di fortissima preoccupazione che dovrebbe accomunare i politici, gli operatori economici, gli studiosi, nella ricerca di soluzioni credibili al problema dell'occupazione.

Alcuni paesi sono più a rischio di altri nella divisione del lavoro che è dietro l'angolo, anche al di fuori degli scenari apocalittici. Sono ormai numerosi gli studi che prefigurano grandi problemi occupazionali con i quali l'Unione Europea, invecchiata e sempre più aperta agli influssi di persone provenienti dal bacino mediterraneo, dall'Africa e dai paesi dell'Est Europa, si troverà a misurarsi nel prossimo millennio: anche lì i "lavori per la vita" diventeranno sempre più scarsi e verranno via via sostituiti da lavori di più breve durata; si manifesteranno spinte endogene verso una maggiore divaricazione tra redditi alti e redditi bassi; le istanze di competitività e di flessibilizzazione del mercato del lavoro produrranno forme di dumping sociale; la domanda di servizi per la persona e per le famiglie espressa dai segmenti di popolazione più marginali assumerà proporzioni cui il nuovo welfare state sarà difficilmente in grado di sopperire.

Purtroppo l'Italia somma in sé molte delle caratteristiche che contraddistingueranno le regioni più deboli dell'economia europea, e che, quindi, potrebbero pregiudicarne il futuro: (1) è un paese arretrato in quasi tutti i settori industriali ad elevata intensità di cervelli (che significa anche ad alta intensità di lavoro); (2) ha la demografia più fragile tra tutti i paesi europei, con la maggiore presenza di vecchi e i minori tassi di fertilità; (3) è particolarmente esposta ai rischi occupazionali insiti nella finanziarizzazione del mondo, a causa della debolezza del proprio sistema bancario e finanziario; (4) ha un rapporto particolarmente basso tra occupati e potenzialmente occupabili, anche contando tra gli occupati coloro che sono attivi nell'economia sommersa.

La sfida del lavoro è quindi molto italiana, ma altrettanto europea. C'è da noi chi sostiene l'opportunità di battere la strada americana della deregolamentazione selvaggia. Al di là dell'Oceano alcuni risultati non sono mancati: molta nuova occupazione, ma in larga parte di pessima qualità, e altrettanta segmentazione del mercato del lavoro, con una divaricazione crescente tra nuovi ricchi e nuovi poveri. Il Regno Unito ha scelto quella via sin dall'epoca di Mrs. Thatcher, senza, peraltro, coglierne tutti i frutti sperati. Gallino, giustamente, ne vede molti pericoli. Alcuni sono enunciati, altri sottintesi: l'apertura dell'Unione Europea - verrebbe da dire l'impossibilità fisica, oltre che politica, di chiusura - ai flussi migratori che premono ai suoi confini da Est e da Sud, unitamente alle spinte nazional-regionalistiche presenti in molti Stati-membri, configurano una situazione potenzialmente ancora più esplosiva di quella che ha caratterizzato gli Stati Uniti negli anni settanta e ottanta. I nuovi arrivi sono candidati naturali a fare parte dei quattro quinti marginali, e le guerre tra poveri, nazionali e immigranti, potrebbero assumere dimensioni e ferocia ancora sconosciute.

Il caso olandese potrebbe insegnare qualcosa: con il consenso delle parti sociali si è andato realizzando nell'ultimo decennio un regime di work-sharing basato sul ritorno al lavoro, prevalentemente part-time, di moltissime donne e di notevoli strati di popolazione giovane e anziana. Il tasso di disoccupazione è sceso da oltre il 14% al 6%.Il contesto istituzionale che ha sorretto questa svolta, a priori tutt'altro che scevra di rischi, è difficilmente riproducibile altrove, ma può essere considerato un esempio da avvicinare. Un ruolo cruciale, e questo sì riproducibile, è stato svolto dall'offerta pubblica e semi-pubblica di asili-nido, e di efficienti servizi di assistenza agli anziani.

Il libro è una salutare provocazione per molti economisti che si adoperano a spiegare le complessità del breve periodo, e finiscono per non accorgersi dei grandi sommovimenti che daranno forma al futuro prossimo, condizionando la dinamica sociale e, in ultima analisi, gli eventi politici. Nel recensirlo viene naturale chiedersi perché - anche su questo terreno - gli economisti si siano lasciati prendere in contropiede. Che gli economisti arrivino tardi su temi di lungo respiro non è certo una novità: torna alla mente il lavoro a domicilio (poi ribattezzato come una delle tante categorie di sommerso, componente essenziale, peraltro, della società dei quattro quinti), denunciato negli anni sessanta dal mondo sindacale, per anni discusso da osservatori avveduti, ma trascurato dagli economisti fino a quando Luigi Frey, prima, e, subito dopo, Sebastiano Brusco (senza dimenticare che Gallino stesso, con il suo Il lavoro e il suo doppio, è stato un precursore non-economista su questi temi) non si accinsero a studiare il fenomeno e a scoprire il decentramento produttivo. Di qui alla teorizzazione dei distretti industriali e del modello della Terza Italia il passo fu breve, e il tutto entrò finalmente a pieno titolo nell'armamentario della professione, per poi essere, ahimè, ampiamente ideologizzato a sproposito sia in Italia sia all'estero (ma questa è un'altra storia).

Un problema risiede nel fatto che la cassetta degli attrezzi dell'economista contiene modelli che, in genere, servono poco per capire il lungo periodo. La macro-economia tradizionale guarda al breve periodo: gli strumenti del mestiere sono quelli della politica monetaria, fiscale, della manovra del tasso di cambio. La propensione a proporre nuovi strumenti a fronte di grandi accadimenti è scarsa: accademicamente rende di più rileggere, riproporre, ridiscutere temi che i più conoscono bene. Le suggestioni provenienti da altre discipline sono poco apprezzate. È solo da pochi anni che - muovendo dalla scuola della public choice - si è andato sviluppando un nuovo filone di teoria della politica economica, in cui il conflitto sociale interagisce con le scelte economiche, diventandone sia causa sia effetto. Così come sono recenti i modelli in grado di spiegare perché i sistemi di sicurezza sociale possono andare in crisi se non si tiene d'occhio la demografia.

Gallino ha anche un pensierino per il politici di professione: "è assolutamente necessario allungare l'orizzonte temporale della politica", e auspica un nuovo patto politico: "i politici si impegnano a varare provvedimenti a caduta differita, i soli che paiono efficaci per combattere la disoccupazione strutturale del XXI secolo. Gli elettori, ad ogni tornata elettorale, promettono di premiare quei politici in luogo di quelli che li hanno gratificati con interventi a pioggia in breve periodo, atti a garantire che tra dieci o quindici anni il problema disoccupazione sarà di molto peggiorato". È realistico un tale patto? Si chiede Gallino, non a torto, se lo sia meno di quello tra generazioni che viene auspicato da tante parti per salvare lo stato sociale.

La terza parte del saggio di Gallino contiene le proposte per l'agenda. Alcune riprendono i temi dei lavori socialmente utili, che sono veramente socialmente utili e cruciali per il futuro.Il problema e la sfida consistono nello scegliere a chi affidarne l'organizzazione e la gestione. Gallino ha una proposta che appare stravagante a prima lettura, ma che potrebbe essere oggetto di una affascinante sperimentazione a qualche livello territoriale: si forniscano incentivi alla creazione di network di imprese destinati a produrre per il mercato servizi alle famiglie, dei veri e propri distretti industriali specializzati in tali servizi. I servizi per chi non se li può permettere potrebbero essere forniti all'interno del distretto a condizioni agevolate. Viene rilanciato l'intreccio permanente tra formazione e lavoro: investire ogni anno il 10% delle ore in formazione, in modo da ricostituire in una decina di anni la "occupabilità" di tutti i lavoratori. Vi sono proposte che indicano la strada della politica industriale e dell'innovazione tecnologica. Altre volte a pareggiare i costi di localizzazione delle imprese tra Nord e Sud.

Quando dall'analisi si passa alle proposte tutto diventa più difficile, il libro di Gallino non fa eccezione alla regola, ma sarebbe fuori luogo criticarlo partendo di qui. Piuttosto discutiamone francamente (ma non nello spazio ristretto di una recensione). I free lunches non sono mai esistiti: ogni scelta ha un suo costo e sarebbe facile opporre a ciascuna delle proposte di Gallino i costi o le complicazioni che lui non ha messo in conto. Se non fosse tutto maledettamente complicato sul terreno della nuova occupazione, non saremmo in tanti a denunciare la pochezza di idee della sinistra su questi temi.

Ha scritto recentemente Jean-Paul Fitoussi ("Le Monde" del 23 dicembre 1998, ripreso da Valentino Parlato sul "Manifesto" del 29 dicembre): i governi "vogliono combattere contro una disoccupazione di massa senza che tutto ciò incida per un centesimo sui loro equilibri finanziari".Il problema sta tutto nella scelta tra un obiettivo primario e altri obiettivi a esso subordinati. La vittoria sulla inflazione è stata ottenuta in Europa sapendo che ci sarebbero stati costi in termini di disoccupazione. Essendo oggi l'unificazione monetaria un fatto acquisito, è arrivato il momento per cambiare obiettivo primario, mettendo l'occupazione al primo posto.

Dobbiamo essere molto grati a Gallino per la sua passione per la concretezza e il parlare chiaro: spunti inestimabili per discutere concretamente, al di là delle ideologie.


recensioni di Graziani, A. L'Indice del 1999, n. 02

Luciano Gallino ha raccolto con grandissima cura ogni possibile notizia in merito alla disoccupazione, totale o parziale, palese o nascosta, territorialmente concentrata o diffusa. Molto correttamente, egli si diffonde a criticare le spiegazioni più diffuse e i rimedi superficialmente suggeriti. Tutta la prima parte del volume si legge con autentico piacere, per la ricchezza della documentazione e per la forza persuasiva degli argomenti.

Tutto questo suona al lettore come un preparare la scena per la parte finale, nella quale l'autore affronta il tema centrale, quello di una politica dell'occupazione. Inutile dire che chi si attende una ricetta miracolosa è destinato a rimanere deluso. Gallino comincia con un lungo elenco di bisogni insoddisfatti: l'inadeguatezza della magistratura, l'insufficienza delle forze dell'ordine, le carenze dei servizi ferroviari, l'abbandono dei monumenti preziosi. Qui Gallino si muove dunque lungo linee non dissimili da quelle già tracciate più volte da Giorgio Lunghini. È ovvio che chiunque potrebbe allungare la lista dei bisogni sociali insoddisfatti, incontrando il favore generale. Ma, come finisce con il riconoscere lo stesso Gallino, il soddisfacimento di tanti e tanti bisogni può essere realizzato solamente grazie a un aumento della spesa pubblica, la quale diventerebbe quindi quel motore per la ripresa dell'occupazione che molti hanno già invocato.

Il Mezzogiorno, come è noto, ospita la massima parte dei disoccupati. Qui Gallino ripropone la tesi del pareggiamento delle condizioni fra Nord e Sud, al fine di suscitare nuove iniziative così come per attrarre investimenti da parte di imprese di altre regioni. Se si pensa di installare lavorazioni a bassa tecnologia, le regioni del Sud dovranno competere con altre aree del globo dove i costi di produzione sono immensamente più bassi (non soltanto per il costo del lavoro, di gran lunga inferiore, ma anche per le norme di tutela ambientale assai più tolleranti o addirittura assenti): il che rende praticamente inattuabile l'obiettivo del pareggiamento delle condizioni. Sotto questo profilo, le riserve che Gallino formula sull'efficacia dei Patti territoriali stipulati dal governo Prodi sono più che fondate.

A questo punto, Gallino fissa alcuni punti di politica industriale che meritano attenzione. Il primo, decisamente controcorrente, è una svalutazione della piccola e media impresa come creatrice di occupazione. Sulla base di alcuni accurati conteggi, Gallino mostra che la piccola e media impresa non è mai riuscita ad assorbire la manodopera che ha abbandonato l'agricoltura o che è stata espulsa dalla grande impresa. In verità, attendersi che la piccola impresa potesse rappresentare una spugna capace di compensare l'esodo agricolo sembra pretendere un po' troppo; ma ciò non toglie che la critica al mito della piccola impresa sia più che centrata. Ne segue che, per Gallino, occorre rivalutare il ruolo della grande impresa come vera creatrice di occupazione e portatrice di progresso tecnologico; così come occorre impedire l'ingresso di capitali stranieri che ha come conseguenza la decapitazione dell'industria con il trasferimento all'estero del cervello dell'impresa. Occorre dunque puntare su tecnologie avanzate, non perché queste facciano necessariamente uso più intenso di lavoro, ma per la ragione assai più consistente che soltanto queste permettono di affermarsi sui mercati mondiali e stimolare un flusso stabile di esportazioni. E occorre puntare su imprese nazionali, per la ragione altrettanto seria che soltanto un'industria completa e non decapitata potrà offrire lavoro ai segmenti più alti della specializzazione, ponendo fine all'esodo di cervelli al quale il nostro paese sembra invece rassegnato.

Altre proposte di Gallino suonano più deboli. Un primo esempio, quella di migliorare l'attività di informazione e di intermediazione nel mercato del lavoro. Attività consimili possono essere utili per ridurre la così detta disoccupazione frizionale, ma in realtà mostrano tutta la loro efficacia nelle situazioni opposte; quando cioè, in un mercato di piena occupazione, sono le imprese ad avere difficoltà a trovare la manodopera adatta alle loro esigenze. Un altro esempio potrebbe essere la proposta di sviluppare le attività di formazione permanente della forza lavoro. È indubbio che l'investimento nella formazione contribuisce alla costruzione di una struttura produttiva solida. Ma non si deve dimenticare che, sotto questo profilo, le esigenze dell'industria finiscono con l'essere sempre soddisfatte: sul finire degli anni cinquanta, quando la grande industria del Nord aveva una fame insaziabile di operai, andava a reclutarli nelle campagne del profondo Sud, e portava a Torino uomini che non avevano mai visto una fabbrica; eppure, un po' adattando le tecnologie di produzione, un po' facendo affidamento sullo spirito di apprendimento dei nuovi assunti, la carenza di formazione veniva superata.

La lettura delle proposte articolate e ragionate di Gallino conferma un'idea che ha molto stentato a farsi strada. E cioè che quello che occorre per combattere la disoccupazione è una solida ripresa della domanda globale.

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Luciano Gallino

1927, Torino

Sociologo, scrittore è stato professore emerito, già ordinario di Sociologia, all’Università di Torino. Fra le voci italiane più autorevoli, Gallino ha contribuito grandemente  all'istituzionalizzazione della sociologia negli ultimi cinquant'anni, lavorando su molti fronti. I temi che ha indagato nel corso della sua attività accademica ed editoriale riguardano la sociologia dei processi economici e del lavoro, di tecnologia, di formazione e di teoria sociale. È stato uno dei maggiori esperti italiani a proposito del rapporto tra nuove tecnologie e formazione, oltre che delle trasformazioni del mercato del lavoro. I suoi principali campi di ricerca sono stati: la teoria dell'azione e teoria dell'attore sociale;...

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