Quando si parla di critica musicale, la principale lamentela che si sente fare è quanto si sia ormai ridotto lo spazio dedicato a questa attività sulle pagine di giornali e periodici, una costante diminuzione che oltre ad aver quasi escluso la musica classica dal dibattito culturale corrente, impedisce di fatto la riflessione anche nei confronti di altre musiche più attuali e diffuse, quali il pop, il jazz, e via dicendo. Leggendo la raccolta di articoli che Alex Ross, sulla scorta del successo del suo libro precedente, ha da poco pubblicato, verrebbe da mordersi la lingua. I venti esempi che ha scelto per offrire ai lettori un campionario dei suoi interessi musicali e della sua attività di critico musicale del "New Yorker" hanno infatti una lunghezza media di una trentina di pagine, sono veri e propri saggi divulgativi da far morire d'invidia qualunque collega italiano, costretto a passar la vita a contare le mezze cartelle. Eppure, una volta arrivati alla fine di Senti questo, rigirando tra le mani il corposo volume si finisce per chiedersi se fosse proprio indispensabile indulgere in così tanti dettagli e in modo così rapsodico da far nascere in più di un'occasione il sospetto che nel medesimo articolo siano confluiti pezzi sullo stesso argomento scritti in tempi diversi. Lo spettro degli argomenti su cui si estende lo sguardo sempre bene informato di Ross è davvero vario e costituisce il primo punto d'attrattiva del libro, sottolineato da uno strillone del "New York Times" stampato in copertina in cui lo si definisce "una gioia che unisce gli appassionati di musica classica e i fan del pop". E varcare i confini della classica e del pop è proprio il tema del primo articolo della serie, una dichiarazione d'intenti in cui l'autore espone a modo suo l'ormai classica tiritera sull'inesorabile processo di imbalsamazione (è sempre colpa di Beethoven
) che ha portato il mondo della musica classica a essere quella sorta di museo che è, un mondo in cui le opere d'arte sono feticci da rispettare a prescindere, i compositori idealizzati e il pubblico una sorta di casta di iniziati che ascolta in silenzio e stigmatizza chi non rispetta il protocollo rituale. Soluzione: la musica classica dovrebbe imparare dal pop, dove la novità è ricercata invece che osteggiata e dove il pubblico reagisce più appassionatamente a quel che avviene sul palco. Per quanto divagante e leggero nell'esposizione, Ross sembra essere consapevole delle implicazioni non sempre evidenti che rendono velleitari i propositi di trapiantare quel che di positivo c'è nel mondo della musica leggera in quello della classica, ad esempio, in un punto nota di sfuggita quanto sia fallace l'equazione "musica classica = elitarismo sociale", riconoscendo che è ormai nel campo del pop che gli artisti sono modelli di privilegio e prestigio sociale. Ciononostante, il suo sguardo non è mai oltremodo penetrante e non si avventura criticamente nei processi sociali e umani che stanno all'origine della grande spaccatura tra musica colta e musica popolare nella nostra cultura. Va detto che Ross non è un accademico né uno studioso, ma un giornalista, un bravo reporter della musica e non il guru del "penser la musique aujourd'hui"; pertanto chi cercasse nei suoi scritti originalità di vedute o spunti critici illuminanti e rivelatori resterebbe deluso. Questo non significa che dalle sue pagine non ci sia sempre qualcosa da imparare: in particolare, le sue citazioni da quanto di meglio la letteratura musicologica di lingua inglese proponga oggi possono servire come punti di partenza per ulteriori letture e approfondimenti, e i suoi reportage sull'educazione musicale negli Stati Uniti o in Cina, sul festival di Marlboro e sulle tournée di musicisti come i Rodiohead, Bob Dylan e il St. Lawrence Quartet sono leggibilissimi e curiosi. Purtroppo, nonostante sia sempre ben documentato, Ross si rivela più debole quando lascia da parte aneddoti e considerazioni di costume e affronta le opere musicali: i suoi giudizi, mutati dai testi cui fa di volta in volta riferimento, non permettono di tracciare un punto di vista coerente e finiscono spesso per essere generici. La debolezza delle categorie critiche si fa sentire in particolare nei capitoli dedicati alla musica leggera, dove più che rilevare questa o quella affinità di procedimenti musicali con pezzi del repertorio classico, si vorrebbe che Ross spiegasse il senso differente di tali procedimenti. I due articoli più deboli della raccolta sono quindi i due più ambiziosi: quello intitolato Ciaccona, lamento, blues, un'inutile carrellata di brani in cui una linea discendente di quattro note cromatiche viene cercata e trovata da Ockeghem ai Led Zeppelin, e il capitolo sulla cantante islandese Björk, una sorta di apologia dove l'autore abbandona ogni filtro critico per lanciarsi in vuote banalità ("Björk unisce la precisione dell'intonazione alla forza del sentimento") ed esaltanti proclami da fanclub ("L'artista creativo si muove di nuovo in un continuum ininterrotto, dal folk all'arte e ritorno. Finora, però, in questa utopia ha abitato una sola persona"). Invece, i pezzi migliori sono proprio quelli che rimangono nel campo della musica classica, dove Ross, che ha una solida formazione musicale, sembra muoversi più a suo agio. In particolare, restano impresse le considerazioni e i giudizi che scaturiscono dalla sua esperienza quotidiana della musica: come quando ammette che l'arte riprodotta avrà pure perso, come diceva Benjamin, "l'aura", ma che nessun concerto dal vivo ha mai potuto dargli le stesse emozioni del disco dell'Eroica di Bernstein che metteva e rimetteva da piccolo; oppure quando scrive che mai ebbe la sensazione di cogliere l'essenza della Fantasia in fa minore di Schubert come quella volta che la suonò, sbagliando metà delle note, a quattro mani con il suo vecchio maestro. Più che le analisi e i discorsi generali, sono spesso questi commenti sinceri e intelligenti a colpire nel segno, rivelando un autore dallo spirito aperto e complice che vive a stretto contatto con la propria materia prediletta. Alberto Bosco
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