La seduzione dell'altrove

I libri di Dacia Maraini sono di una bellezza sorprendente. Adoro la sua prosa, il suo stile, la sua scrittura docilissima e meravigliosamente magica. Nella "Seduzione dell'altrove", l'autrice ci guida in un grande viaggio in lungo e in largo per il mondo, ci dona i problemi, le difficoltà, le speranze, i sogni di un'umanità in cerca di pace e tranquillità, ci porta con lei ad affrontare il tortuoso cammino degli uomini; la sua prosa elegante e mai prevedibile conferisce a questo libro una straordinaria attualità poetica-politica, ci dona un ampio respiro sul mondo di oggi.

E’ una raccolta di 29 brevi racconti di viaggi della Maraini negli anni dal 1992 fino al 2009. Un nutrito gruppo di sei racconti, più omogeneo, nella sezione “Nuove Seduzioni Spirituali” è raggruppato nell’anno 2000, forse un omaggio al nuovo secolo in arrivo. Maraini ha una scrittura fluida e ben strutturata, come ben evidenziato dai suoi romanzi. Con un caveat: non è “turista fai da te” e neppure turista del sesso (infatti nell’introduzione narra delle peregrinazioni di un biennio in Africa di Flaubert, alla ricerca di una famosa prostituta nera e bellissima. Per sua sfortuna la trova, ne vivrà una notte di sesso con sifilide in omaggio che lo porterà alla morte nel giro di pochi anni. Il turismo del sesso non paga!). In realtà lei gira per il mondo invitata dagli istituti di cultura delle nostre ambasciate o direttamente da alcune università dove va a tenere dei corsi di letteratura italiana di qualche settimana (chapeu, sicuramene meritati). Come tale, il suo è un osservatorio privilegiato, dove incontra letterati e studiosi delle varie nazioni che si vogliono confrontare con lei ed avere notizie di prima mano sul nostro paese. Lei è maestra nello svolgere questo compito, però faccio notare che, salvo alcuni casi, le sue impressioni sono prettamente letterarie e umanistiche, con pochi approfondimenti delle situazione sociali e politiche dei vari paesi. Prendiamo il racconto su Buenos Aires: certo, parla delle torture perpetrate dal regime dei colonnelli con chiare parole di condanna, ma forse non è mai stata alla Casa Rosada e in Plaza Cinco de Mayo a protestare con le madri e nonne dei desaparecidos. Il racconto si profonde su Jorge Luis Borges ma manca un breve cenno a Carlos Gardel, il padre del tango, di cui avrebbe trovato la statua al tavolino del Gran Cafè Tortona. E Santiago? Nulla sui crimini di Pinochet! Inoltre la Santiago del 2018 è ben diversa da quella del 1997, per cui il racconto è sfocato. Auschwitz: il reticolato era a 6000 V, non Watt!

La doppia tratta del viaggio, sentimento e conoscenza, il fuori e il dentro esplorati come su un binario di incontri sempre nuovi e importanti a definire il cammino della scrittura. Latitudini e climi si alternano in pagine davvero bellissime, da Tirana, coloratissima terra di importanti scrittori, a una Buenos Aires densa e magica negli echi del respiro di Borges. Dalle realtà studentesche americane a un'Africa in subbuglio, piena di spari, pulmini, sudiciume e differenze di classe ancora vive, malate. Viaggiano con Dacia gli uomini della sua vita, il ricordo di Moravia in Kenya mentre riflette sugli elefanti:"A vederli si prova un sentimento strano, come se ogni elefante si portasse dietro un lembo di eternità. Invece non sono eterni, anzi, stanno rapidamente scomparendo". Aggiungerà l'autrice più in fondo:"Queste sono le contraddizioni del girare in Africa oggi. Tutto è vero e tutto è falso, tutto è puro e tutto è corrotto, tutto è intelligente e tutto è stupido. Anche noi che cerchiamo di racimolare le tracce di un mondo che è già morto e sepolto sebbene continui a vivere in forma di reperto arcaico chiuso in una teca da museo". E infine le rotaie della banalità, il percorso del gas e dell'assurdo, il viaggio ad Auschwitz dove basta socchiudere gli occhi per sentirsi addosso le unghie del male, la tragedia oltre ogni parola, filo spinato e silenzio ad abbracciare l'insostenibile gravità della memoria. Libro di sorprese e riconoscenze letterarie, si perdono i rimandi a Flaubert o alla Grandes, a Pasolini, onnipresente e immenso amico, all'intelligente dolcezza di Henry James. Lo sguardo di Dacia è come una tela materna su questi luoghi, la tenera e ficcante precisione di una donna che scruta nel buio di un sociale mutevole, malato per molti aspetti, controverso e affascinante insieme. Ma scelgo le pagine sull'Africa a dare davvero l'intensa sincerità dell'inchiostro di Dacia, la sua fermezza a cantare i morbi e i chiarori di quel mondo tanto dimenticato da tutti.