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Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo - Domenico Calcaterra - copertina
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Descrizione


Il saggio approfondisce le ragioni di quello che si è voluto battezzare il "secondo Calvino": dalla rivoluzione immaginativa delle storie cosmicomiche ai raccontini palomariani; passando per le opere di stampo più combinatorio degli anni Settanta (Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d'inverno un viaggiatore). Quel Calvino convinto assertore di una letteratura cosmica, entro una visione meno angusta, per forza di cose sovrastorica e antiantropocentrica, della realtà. L'auspicato ritorno a una filosofia della natura, favorita dal virtuoso incontro con la scienza. Così, oltre al Calvino di un solo romanzo, l'esordio del "Sentiero dei nidi di ragno" (1947), oltre all'autore dalla levità e dall'estro ariosteschi della trilogia dei "Nostri antenati" (1960), oltre al Calvino letto sui libri di scuola delle peregrinazioni in città di "Marcovaldo" (1963), esiste un secondo Calvino appunto, frettolosamente rubricato come combinatorio e postmoderno, e che è invece scrittore, profondo, della natura e della memoria. Prefazione di Alessandro Zaccuri.
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Dettagli

2014
7 maggio 2014
180 p., Brossura
9788857522340

Voce della critica

Negli ultimi tempi pare che scrivere di Calvino significhi partecipare a un rito collettivo di uccisione del padre. Un rito i cui primi sacerdoti sono stati Carla Benedetti con Pasolini contro Calvino (Bollati Boringhieri, 1998) e Antonio Moresco con le Note contro Calvino incluse nel Vulcano (Bollati Boringhieri, 1999): due dei più attivi propugnatori di una letteratura nuova, combattente, performativa e amante del caos, incompatibile, perciò, non solo e non tanto con quella di Calvino, quanto con quella che il modello calviniano stava portando nel panorama italiano. Quella uccisione del padre si è rivelata utile e forse necessaria, e oggi trionfa un modello letterario diverso e comunque altissimo di cui Antonio Moresco è certamente il maggiore rappresentante. È proprio questo, dunque, il momento di comprendere davvero Calvino, depurandolo dalla sua ingombrante eredità, dalle sue ricadute sull'oggi, e ponendolo nel suo quadro storico e nella sua dimensione di classico. La pubblicazione, perciò, ora, a quindici anni da quell'assassinio edipico e a trenta dalla morte naturale dello scrittore, di questo Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo di Domenico Calcaterra appare quanto mai opportuna. Opportuna non tanto perché fosse necessaria una voce in più nell'analisi critica dello studiatissimo autore, quanto perché questo testo si pone ad un crocevia critico, nel momento in cui cioè dal requiem trionfante degli ultimi anni si svolta verso un'analisi matura, di un Calvino autentico. E Calcaterra dimostra di sapere bene dove collocarsi, come ribadisce con piglio sicuro, ad esempio quando parla di Le città invisibili, quando si riferisce al "desiderio di provare a restituire Calvino a Calvino, e in tal senso leggere Le città invisibili al netto d'ogni considerazione semiotico-strutturale preordinata, tornando a focalizzare invece i nodi forti della rarefatta poesia del frammento, dell'utopia pulviscolare, e soprattutto la mai dismessa perorazione del ligure sulle eventualità effettive del conoscere, in un mondo che è caos". Restituire Calvino a Calvino, dunque, e l'analisi critica alla propria libertà, si direbbe, al di là di schieramenti e fazioni pronti a tirare per la giacchetta il nome più forte della narrativa italiana degli ultimi decenni. Ne esce un Calvino alle prese con una costante interrogazione epistemologica, che lo porta al di fuori, oltre che dalla stringente koiné semiotico-strutturalista, anche da quel postmoderno di superficie (dove prevarrebbe, secondo McHale, una dominante ontologica su quella epistemologica), che pure viene spesso usato per etichettare questo Secondo Calvino, il Calvino, cioè, successivo al racconto lungo La giornata d'uno scrutatore (1963), ma anche alle riflessioni della Sfida al labirinto (1962), da cui si prendono le mosse. Il ritratto dello scrittore, un ritratto realizzato con una scrittura sobria e elegante, sontuosa e pulita, tipica della penna dell'autore siciliano, è quello di un uomo che si confronta col mondo e la sua definizione in costante divenire, che gioca un corpo a corpo con la natura, con la scienza, con l'universo, sacrificando infine il proprio io, certamente, come è stato detto, ma anche sostituendo alla ortodossa autobiografia una sorta di "auto-biologia", come suggestivamente viene chiamata. L'uomo diviene particella, molecola, organi e pelle, parola e cosa, mondo scritto e mondo non-scritto: "Il chiaro centro gravitazionale dello scrittore in crisi è la ricerca di un varco, un'entratura che sappia suturare parole e cose, mettere insieme dentro e fuori, lingua e natura".   Alessandro Cinquegrani      

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