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Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini
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Descrizione


L'analisi di Dupront converge su due atti religiosi essenziali per l'Occidente cristiano: il pellegrinaggio e la crociata. L'esemplificazione storica diventa l'occasione per recuperare il complesso universo mentale senza tempo che dietro quei fatti storici si agita e che ci viene restituito nella sua intensità e freschezza di vissuto umano.
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Dettagli

1993
12 aprile 1993
562 p.
9788833907031

Voce della critica

DUPRONT, ALPHONSE, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini

DUPRONT, ALPHONSE, Il presente cattolico. Potenza della religione, latenza del religioso
recensione di Filoramo, G., L'Indice 1994, n. 5

Alphonse Dupront è morto nel 1990, all'età di ottantacinque anni. Aveva fatto in tempo a curare l'uscita presso Gallimard, del primo scritto, programmaticamente intitolato "Du sacré", in cui aveva deciso al raccogliere una serie di saggi (redatti tra il 1958 e il 1986) intorno alle tematiche a lui care della crociata, del pellegrinaggio e della religione popolare. A questi saggi egli aveva premesso, sorta di libro nel libro, una lunga e originale riflessione metodologica sui compiti dell'etnologia religiosa, intesa come chiave privilegiata di accesso alle manifestazioni storiche di quello che anch'egli, un po' corrivamente, definiva homo religiosus. Il secondo libro è uscito invece postumo per le cure della moglie: il che ne spiega almeno in parte le ripetizioni e la lettura alquanto faticosa.
I due scritti appaiono a prima vista molto diversi l'uno dall'altro: il primo è un tipico prodotto dell'accademia d'oltralpe, dotto e brillante, come ci si può aspettare dall'autore di un importante saggio sull'acculturazione tradotto anni fa da Einaudi, appassionato quanto basta nella sua contemplazione distaccata della tumultuante materia trattata; il secondo è un pamphlet violento sullo stato presente della chiesa cattolica, che espone l'autore in prima persona nella difesa di una tesi inquietante sull'importanza della tradizione e sulla necessità per la chiesa, pena la sua scomparsa nel gran ventre della balena secolarizzante, di ricuperare quell'aura sacrale che il Concilio sembrava aver messo in pensione in modo definitivo.
I due libri costituiscono in realtà due volti della stessa medaglia: la concezione del sacro di Dupront. Colta nel primo libro nella sua dimensione storica e indagata nella sua struttura antropologica, questa concezione manifesta, nel secondo, tutta la sua inquietante e tormentosa carica attualizzante nel momento in cui l'autore la applica, spogliatosi dei panni aulici dello studioso del medioevo religioso crociato e pellegrinante, all'analisi della situazione attuale del cattolicesimo.
Il sacro appare a Dupront il cuore di tenebra del comportamento dell'homo religiosus, la molla profonda, "irrazionale", del comportamento del singolo ma soprattutto delle masse di pellegrini e di crociati che calcano anonimamente tanta scena religiosa medievale. Vale, nel suo caso, quanto egli acutamente osserva presentando la figura del maestro Alphandéry, che era mosso dal bisogno dotto di scoprire ciò che era stato più o meno deliberatamente scartato dal campo della ricerca religiosa in quanto anormale, inutile o colpevole: "giustiziere degli uomini, egli sapeva che nel singolare, nello scandaloso, nel proibito per tacita convenzione o per confortante condanna, si trova racchiuso qualcosa della ricerca religiosa umana".
Così, sulle orme del maestro, anche Dupront ha insegnato a un'intera generazione di storici a guardare a fenomeni collettivi quali i pellegrinaggi o le crociate come fenomeni che, dietro la loro apparente assurdità, in realtà manifestano un'energia vitale "che rifiuta di spegnersi".
La sottile e talora compiaciuta vena irrazionalistica che percorre "Il sacro" non è soltanto il riflesso di un bergsonismo in qualche modo di maniera, che lo porta, secondo una dicotomia tradizionale, a individuare nell'emozione la dimensione vitale "originaria" della religione. Anche se oggi la "geometria delle passioni" pare ritornata di moda, occorre non dimenticare che tutto un gruppo di moderne teorie sulla natura della religione, dall'interpretazione di W. James a quella di E. Durkheim, tendono a individuare nel sentimento, nell'emozione profonda dell'incontro col sovrumano, il nucleo dell'esperienza religiosa. Ricondotta alla sua matrice individualistica che altro sarebbe la religione (o, meglio, la religiosità) se non quel passaggio improvviso "dalla notte più scura alla luce folgorante delle cose", che James descrisse mirabilmente, all'inizio di questo secolo, come il cuore dell'esperienza di conversione? Il sacro stesso, in questa prospettiva emozionalistica inaugurata all'inizio dell'Ottocento dal teologo protestante Federico Schleiermacher, che altro è se non sentimento e intuizione cioè esperienza vissuta, dotata di un suo intrinseco valore noetico, dell'Infinito? E, per converso, che altro sarebbe la religione se non incorporazione di questa esperienza esaltante e a suo modo indicibile in un linguaggio che comunque la socializza e la rende comunicabile; se non addomesticamento di quel sacro selvaggio, senza il quale non si darebbe religione; se non amministrazione di quel sacro primordiale, di quell'esperienza originaria e fondante? All'inizio (della religione) v'erano dunque il sentimento, l'emozione, la passione: la vita, insomma. E se vogliamo ricuperare la forma primitiva dell'esperienza religiosa, superando la sclerotizzazione dogmatica e la degenerazione burocratica che prima o poi inevitabilmente uccidono questo nucleo vitale, non rimane altro da fare che tuffarsi nuovamente nel mare incontaminato e vergine delle emozioni primordiali.
L'irrazionalismo di Dupront, con la sua concezione decisiva del sacro come "forza sotterranea che è potenza di esistere e di realizzare", come "pulsione a spendere la propria vita e dunque come ricerca di pienezza e compimento", come "energia della storia... il serbatoio e la fonte di tutto il 'fare' umano", applicata alla particolare logica del campo religioso da lui indagato, si traduce in realtà in una dicotomia altrettanto tradizionale: quella tra chiesa degli spirituali e chiesa come istituzione. Lo Spirito che muove i vari spirituali cari al nostro autore altro non è che la versione teologica, più o meno riuscita, del sacro inteso appunto come energia e motore della storia, almeno di quella religiosa: forza, si badi bene, "animatrice, in rivolta e sempre creatrice": chi ne è privo, è ovviamente pregato di rivolgersi altrove.
Occorre però stare attenti a non insistere troppo su questo aspetto. Pur centrale, esso costituisce soltanto l'ordito sul quale Dupront in realtà intesse poi una trama sapientissima di osservazioni metodologiche sulle concrete "stazioni" del sacro. Il lettore interessato è convitato a un gioco intellettuale lucido e profondo di rinvii impliciti tra la seconda parte del "Sacro", con i saggi magistrali che contiene su aspetti vari della crociata e del pellegrinaggio medievali, e la prima parte, che gli disvela la sapienza metodologica cui l'autore è pervenuto al termine del suo lavoro. Di questa trama preme rilevare quegli aspetti di fondo, che ritroveremo poi nel saggio sulla presenza cattolica. L'energia motrice del mito prima di tutto, che si dispiega nell'azione collettiva delle crociate: via privilegiata di accesso alle profondità della psiche collettiva, con i suoi bisogni, attese, rivolte, i suoi tempi e ritmi particolari di implosione lenta e improvvise esplosioni. La pulsione escatologica, in secondo luogo, all'opera soprattutto nelle crociate. Essa non è soltanto volontà del mondo cristiano di salvaguardare le proprie sorgenti religiose, ma vissuto straordinario e unico dell'avvenimento, via di salvezza escatologica che getta un ponte tra contingente e assoluto, ricerca e tensione all'opera nello psichismo collettivo, che rivelano una profonda sete di salvezza, un'apertura sull'assoluto. E ancora, soggiacente ai vari sensi del mito e alla tensione escatologica, la pulsione sacralizzante, generatrice di senso, potenza che con la sua particolare dialettica fondata sulla ricerca dell'Altro, costruisce la geografia e i ritmi sui quali si innestano crociate e pellegrinaggi. Attraverso un'analisi fenomenologica che mira a ricostituire le strutture portanti di questi due edifici congiungendole con le varianti più significative (la drammatica antropologica del pellegrinaggio, ad esempio, come capacità ripetibile di vivere lo spazio nel contempo trascendendolo; quella della crociata, di contro, come atto unico per raggiungere un luogo unico), Dupront disegna così il profilo di un'antropologia religiosa in cui non per ultimo recitano una parte decisiva le immagini, esempio da lui prediletto della dimensione panica dei segni che popolano l'universo dell'uomo religioso.
Non è ora possibile approfondire la messe di spunti illuminanti di tipo metodologico disseminati nella prima parte del "Sacro", forse riassumibili nel tentativo di costruire un'etnologia che sia in grado di mediare tra le esigenze particolari di una storia religiosa votata alla caccia dell'unico, del diverso, del relativo; e di un'antropologia religiosa di contro tesa a mettere in luce costanti e ripetizioni. Preme piuttosto sottolineare lo scopo che Dupront assegna a questa disciplina, che egli vede tesa a ricuperare la tradizione messa in crisi dal mondo tecnologico e la cultura tradizionale che ne è l'espressione. La chiave di lettura de "La presenza cattolica" è contenuta in queste riflessioni sulla tradizione, intesa nel senso globale di "potenza del nuovo attraverso l'antico... l'unica a dare alle società umane, purché si spogli fino a essere semplicemente potenza, la virtù della durata".
Anche la chiesa, "società organica del passaggio fra l'uno e l'altro mondo", agli occhi vagamente benjaminiani di Dupront, ha perso, al pari dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, l'aura di sacralità che tradizionalmente la distingueva a partire dai suoi vertici carismatici. La burocratizzazione e l'etica dell'utile rischiano di trasformare in modo irreversibile anche questa società organica in un corpo senz'anima. Le vie che rimangono aperte alla chiesa sono le vie della tradizione prima ricordate, esemplificate nel ricupero di una Parola in grado di sfuggire alle secche della banalizzazione massmediologica nella misura in cui è ancora capace di farsi eco dell'Altro, di esprimere i bisogni profondi della psiche collettiva ma soprattutto di trasmettere la potenza del dato rivelato di cui essa è veicolo.
Anche se talora la concezione di Dupront pare assimilabile a quella, semplicistica fino alla banalità, di un Lefebvre, in realtà essa se ne differenzia proprio per lo spessore storico che la contraddistingue e che, per chi voglia andare alla ricerca di antenati, ricorda piuttosto una tipica concezione romantica come quella di Johann Adam Mohler: il genio del cattolicesimo come corpo mistico e dunque come religione dei misteri, come tradizione in grado di collegare individuo e massa, passato presente futuro, conservando il senso e la potenza del sacro, preservando il mistero del cosmo. Insomma, tutti i caratteri che paiono contraddistinguere certa religione postmoderna.

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