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recensione di Jona, E., L'Indice 1989, n. 3
Jean Améry (pseudonimo di Hans Mayer) nacque a Vienna nel 1912, lasciò l'Austria nel 1938, dopo la sua annessione alla Germania, emigrò in Belgio, partecipò alla Resistenza; arrestato e orribilmente torturato dalla Gestapo, sopravvisse ad Auschwitz, ritorn• in Belgio e alla sua attività di scrittore, morì suicida a Salisburgo nel 1978.
Qualcosa di tremendo dunque aveva segnato Améry e la sua visione del mondo: prima la perdita della propria "Heimat", che è insieme terra, patria e focolare; fu la lettura, dice, in un caffè di Vienna delle leggi di Norimberga a togliergli la sua identità, a condurlo alla scoperta del suo obbligo e della sua impossibilità di essere ebreo; quindi fu la tortura, che il nazismo praticava non solo come mezzo ma come fine, a rompere insieme alle sue giunture un'altra sua identità, a violare il suo io. E infine Auschwitz lo pose di fronte al male assoluto, non conoscibile, perché tutte le interpretazioni del campo di sterminio sono, secondo Améry, insufficienti e parziali. Chi abbia letto il suo libro più significativo ("Intellettuale a Auschwitz" Bollati-Boringhieri, 1987) sente che perdita di identità etnica, esilio, tortura e campo di sterminio sono gli antefatti che segnano questo suo percorso attraverso la vecchiezza e il morire.
La persona che invecchia, dice Améry, sperimenta il futuro come negazione della spazialità, perché ciò a cui va incontro è la morte che lo toglierà dallo spazio. Se il giovane è una creatura del tempo, ad esso e non al mondo definitivamente legata, perché ha alle spalle la vita, cioè tempo raccolto, vissuto, trascorso. Tanto minore è il tempo davanti a lui e tanto maggiore è il tempo in lui; egli quindi in quanto individuo che invecchia è solo tempo, ne sperimenta l'irreversibilità e tanto più lotta contro di esso, tanto più gli appartiene e riconosce che la sua attesa è rivolta alla morte.
Un secondo aspetto dell'invecchiamento è l'estraneità a sé stessi. Il corpo trasmette a chi invecchia una nuova consapevolezza di sé, egli diviene sempre più partecipe di un io privo di mondo, perché in parte diviene tempo, accumulo di ricordi, e in parte diviene sempre più corpo. NelI'invecchiare, dice Améry, io sono attraverso il mio corpo e contro di lui, mentre in gioventù ero senza il mio corpo e con lui. Da questa perdita d'identità nasce un'ulteriore conseguenza: il vecchio è ormai solo ciò che è e non ciò che potrebbe essere, il mondo non gli fa più credito di un futuro, non gli chiede cosa farai, ma cosa hai fatto; il suo è quindi un esistere fuori della realtà storica.
Ma accanto al divenire estraneo a sé stesso, oggetto di un invecchiamento sociale, egli è anche soggetto ad un invecchiamento culturale; la difficoltà di orientarsi in un ordine di segni sconosciuto, la densità e la rapidità dell'informazione e la radicale costrizione temporale rende ancor più difficile a chi invecchia di essere nel tempo, di qui la consapevolezza e la percezione dell'inattualità del proprio schema individuale di riferimento, sopraffatto da un sovrasistema che si rinnova con un dinamismo irresistibile. Anche l'invecchiamento culturale non ha dunque rimedio, è l'annuncio della fine. Senza mostrare speranza alcuna il vecchio deve allora decifrare senza fine i nuovi sistemi culturali e deve serbare una fedeltà, priva di valore, verso i propri ordinamenti, consapevole della necrofilia del proprio comportamento, impegnandosi senza prospettive di successo nell'opera di autosuperamento, al contempo accettando e rifiutando la propria distruzione.
L'invecchiamento è infine la fase della vita in cui ci imbattiamo nel pensiero della morte, ma pensare alla morte, come scriveva Jankelevitc, è "penser l'impénsable". Intorno alla morte non c'è nulla da pensare, tutti subiamo la stessa disfatta, dobbiamo vivere con il morire, non con la morte. "Le faux c'est la mort", diceva Sartre, la verità è questo nostro lento inesorabile appassire, restringerci, soffocare. Che cosa ci resta? Vivere alla giornata? Nasconderci l'inevitabile? Mormorare le litanie? Trovare un accordo con la negatività? Sfuggire la morte con la morte?
La scelta del suicidio è rifiutata in "Rivolta e rassegnazione", ma sarà poi teorizzata in "Hand an sich legend" (E. Klenn Verlag, 1976) e attuata con sicura determinazione. La conclusione che invece viene proposta è quella di vivere totalmente la contraddizione tra paura e speranza, tra ribellione e disperazione, tra rifiuto e rassegnazione.
Qualcuno ha scritto che Améry ha percorso la vita come un gladiatore che conosce la sua sorte prima di entrare nell'arena, altri che egli visse il suo corpo come aveva vissuto il lager, luogo irrimediabile di prigionia e condanna. Ma questa lettura esistenziale, sartriana della vecchiaia non la riconosce come un momento della vita, ma come qualcosa di estraneo a essa, anche socialmente disturbante. Vi è in Améry una meccanica contrapposizione tra vita e morte, tra giovinezza e vecchiaia, come se in quest'ultima, accanto al peso e al segno del tempo, non vi potesse più esistere progettualità, futuro, spazio, mondo, amore, sguardo privo di orrore, o come se anche il giovane non potesse avere la sua morte addosso. Vi è certamente un momento in cui nell'invecchiamento appare il morire e Améry ne descrive un suo percorso esemplare. Ma si pensi anche alla "Morte d'Ivàn Ilj¡c" in cui tutte le ragioni e la tragicità dell'invecchiare, che Améry distende nel corso del tempo si radunano ed esplodono alla scoperta del morire: la percezione del tempo, il peso del corpo, la vita trascorsa su non valori, l'estraneità a sé stessi, lo sguardo escludente degli altri. Tuttavia quando Ivàn Ilj¡c cessa di ribellarsi e cessa di rassegnarsi si libera anche dal morire e quindi dalla morte, e su questo limite estremo della vita scopre finalmente sé stesso e gli altri e può compiere l'atto liberatorio di morire per sé e per loro, morire, si direbbe, amorosamente, un morire che Améry per rigore e disperazione nega a sé e agli altri.
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