Benché abbia attraversato il cielo della filosofia come una meteora che solo per un breve istante brilla e poi subito si spegne, Simone Weil è una pensatrice di valore e una scrittrice compiuta, in grado di competere per la luce che si sprigiona dalla sua opera con i più grandi filosofi del suo tempo: con Heidegger di cui lei, così raffinata, elegante, essenziale nella scrittura, sicuramente non avrebbe amato il gergo filosofico e condiviso le idee politiche, e persino con Wittgenstein a cui, se non altro per le scelte di carattere esistenziale e per il temperamento, lei stessa si sarebbe riconosciuta più prossima e affine. Ma forse sarebbe più opportuno accostare Weil a filosofi e scrittori appartenenti a quella cultura greca che legge con singolare predilezione e da cui attinge gli splendidi materiali con cui costruisce il suo solido edificio filosofico e persino la sua originale interpretazione del cristianesimo. Weil leggeva infatti il Vangelo alla luce della poesia e del pensiero greco, non attraverso la Bibbia e l'eredità ebraica, come puntualizza Giancarlo Gaeta nel saggio posto a conclusione del volume, che raccoglie gli scritti della pensatrice ebrea francese nati dall'incontro con la grecità. Stupisce in questo volume lo sguardo sicuro con cui la giovane scrittrice legge i grandi testi della tradizione classica, i tragici greci, l'
Iliade, e gli scritti filosofici di Eraclito, Pitagora e Platone. E poi ancora stupisce come un unico tema attragga sempre invincibilmente la sua attenzione: l'atteggiamento dell'uomo di fronte al
malheur, e come un'unica preoccupazione impegni costantemente la sua intelligenza: l'analisi delle leggi con cui la forza piega, schiaccia e asservisce il più debole e umilia chi resiste al suo potere e non vi si sottomette: leggi che agiscono con l'implacabilità di una legge fisica. Così, presentando Sofocle e la sua insuperata arte, Weil osserva che "di lui ci restano soltanto alcune tragedie. In ciascuna di queste, il personaggio principale è un essere coraggioso e fiero che lotta da solo contro una situazione intollerabilmente dolorosa; si piega sotto il peso della solitudine, della miseria, dell'umiliazione, dell'ingiustizia". Poi, parlando dell'eroe tragico, ammette: "A tratti il suo coraggio viene meno; ma (
) non si lascia mai degradare dalla sventura. Così queste tragedie, benché dolorose, non lasciano mai un'impressione di tristezza. Se ne ricava piuttosto un'impressione di serenità". Si tratti dell'analisi dell'
Antigone, dell'
Elettra o del
Filottete, l'accento in queste pagine cade sempre sulla necessità spirituale di "non lasciarsi degradare dalla sventura" e sull'indagine lucida e profonda di quel che accade nello spirito e nel cuore di coloro su cui si abbatte il
malheur. Forza e sventura sono concetti strettamente legati nel pensiero di Weil. La forza, annota la scrittrice francese, è al centro di ogni vicenda umana e chiunque sia in grado di discernere questa verità non può non riconoscere nell'
Iliade lo specchio puro in cui si riflette l'intero corso della storia del mondo. Signora delle azioni esteriori degli uomini, legge delle loro relazioni sociali, la forza dispiega tutto il suo potere distruttivo nella guerra, dove tanto il vincitore quanto il vinto ne sono posseduti e ridotti a cose. Se infatti la forza fa di chiunque le è sottomesso o la subisce una cosa e quando è esercitata fino in fondo fa dell'uomo una cosa nel senso più letterale, riducendolo a un cadavere, anche colui che la possiede e la maneggia e abusandone se ne inebria a un certo punto sarà costretto a piegarsi sotto di essa. Nessuno infatti la possiede stabilmente e le relazioni tra gli uomini, regolate da rapporti di forza, cambiano e si rovesciano continuamente. Chi un istante prima, sotto l'ebbrezza della forza, umilia senza alcuna pietà il vinto, l'istante successivo, quando la forza lo abbandona e lo priva dell'armatura di potenza che lo proteggeva, è a sua volta umiliato ed esposto nudo alla sventura sotto la sferza del nuovo vincitore. Non c'è nessuno, ripete Weil, nelle dense, commoventi pagine dedicate all'esame dell'
Iliade, che a un certo punto non sia costretto a piegarsi sotto la forza. Come insegna il poema omerico, il gioco della forza ha sempre un andamento pendolare, sicché la guerra alla fine procura solo sventura a tutti coloro che vi partecipano. Un uso moderato della forza, che solo permetterebbe di sfuggire a quest'ingranaggio, richiede una virtù soprannaturale, tanto rara quanto una costante dignità nella debolezza. Nondimeno la sventura (categoria chiave della riflessione di Weil) può essere un'occasione di perdizione ma anche di salvezza per colui che colpisce. Mediante il consenso alla sventura questi può infatti negare sé stesso, fare il vuoto al proprio interno e aprire nell'anima un varco attraverso il quale può passare l'amore di Dio per Dio. Solo questo amore consente all'anima umana di sfuggire al potere che su di essa esercita la forza e di essere giusta. Per contro, colui che ignora fino a che punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana in loro potere non può considerare come suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. È possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l'imperio della forza e si è capaci di non rispettarlo. Il riconoscimento di questa verità attraversa e illumina i poemi omerici, la tragedia attica e soprattutto il Vangelo. Il Vangelo è infatti, per Weil, l'ultima e meravigliosa espressione del genio greco, mentre l'
Iliade ne è la prima. Lo spirito della Grecia vi traspare non soltanto perché vi si ordina di ricercare, a esclusione di ogni altro bene, "il regno di Dio e la giustizia celeste", ma anche perché vi è esposta la miseria umana, in tutto il suo orrore, e questo in un essere a un tempo divino e umano. Il pensiero della giustizia soprannaturale illumina tutto quel che è raccontato in queste opere, mentre la forza vi appare nella sua fredda durezza ed è sempre accompagnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né chi ne fa uso né chi la soffre. Infine l'umiliazione dell'anima sotto la costrizione non vi è mai mascherata, mai sottaciuta, anche quando si tratta dell'uomo-dio. Ed è questa verità che rende "straziante" ogni frase del racconto della Passione nei Vangeli. L'amore per lo "spirito greco" e per le sue pure idee spinge Weil a leggere Eraclito, Pitagora e soprattutto Platone. Per lei Platone è il padre della mistica occidentale, le cui radici affondano in quella tradizione orfico-pitagorica che, sia pure in forma diversa, ha fortemente influenzato la letteratura e filosofia greca. Prima ancora che esegeta, Weil è un'attenta lettrice e traduttrice di questi autori nel significato che lei stessa attribuisce alla nozione di lettura e di attenzione. L'attenzione consiste per lei nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all'oggetto. Essa è stimolata dal desiderio dell'oggetto da apprendere, dal desiderio di sapere, e non risiede mai in uno sforzo muscolare della volontà. Sentiamo, leggendo i suoi appunti sulla filosofia greca, che ciò che Eraclito scrisse di sé, della propria capacità di attenzione: "Faccio caso a tutto ciò che si può vedere, udire, apprendere", è il criterio che guida anche la sua eccezionale lettrice. Sentiamo infine, leggendo i passi dei dialoghi di Platone che lei seleziona per ricostruirne il pensiero morale, teologico e politico, che se è vero che la giovane legge il Vangelo alla luce della filosofia greca, è però anche vero che legge i dialoghi platonici alla luce della rivelazione cristiana. Illuminata dal Vangelo, la filosofia platonica appare completamente dominata dall'idea della purezza del bene, del divino, della luce. Parlando del bene e dell'azione che esso esercita sugli enti, Platone nella
Repubblica lo paragona al sole che con la sua luce illumina e vivifica tutte le cose. Questa luce risplende anche nel santo, che è tale perché le sue azioni partecipano del bene, perché con la sua condotta imita Dio. Non a caso, mi pare, Weil si sofferma ad analizzare la figura del "giusto perfetto", il quale a motivo della sua luminosa, perfetta santità, in contrasto con le tenebre del mondo, sarà torturato, condannato e infine morrà impalato, rinnegato da tutti. Questa figura cristica (che ha fatto parlare i padri della chiesa di un "Plato christianus"
) le fa quindi scrivere: "Platone, giungendo a supporre che il giusto perfetto non sia riconosciuto come giusto neppure dagli dei, presagisce le parole più strazianti che vi siano nel Vangelo: 'Dio mio, perché mi hai abbandonato'".
Isabella Adinolfi