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Riprendiamoci le parole. Il linguaggio della politica è un bene pubblico - Graziella Priulla - copertina
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Riprendiamoci le parole. Il linguaggio della politica è un bene pubblico - Graziella Priulla - copertina

Descrizione


L'Italia è arrivata stremata ai titoli di coda del lungometraggio berlusconiano. Stremati, impoveriti, incattiviti gli italiani. Stremate le parole, logorate dagli slogan, ingozzate di significati impropri, traumatizzate dalle risse. Più il brutto diventa consueto, meno sembra brutto: vale per i paesaggi e vale per i discorsi. Eppure i discorsi corretti, le argomentazioni logiche sono l'ossigeno della democrazia. Proviamo a fare un elenco delle parole più ferite, più stanche, più tradite. Piantiamo dei paletti, come facevano gli antichi quando fondavano una città nuova. Proponiamo che il 2012 sia l'anno in cui il linguaggio riprenda fiato, con una specie di vaccinazione di massa dalle manipolazioni e dalle mistificazioni: per la politica un bagno di umiltà, per i cittadini un recupero di senso critico.
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Dettagli

2012
1 gennaio 2012
200 p.
9788897050155

Voce della critica

Anche quello berlusconiano è stato un ventennio. O quasi. Stavolta il ventennio ha avuto qualche interruzione e non è stato violento e truce come il precedente. Ma le massicce dosi di violenza simbolica di cui si è avvalso, adattandosi ai tempi televisivi, hanno comunque perpetrato danni non indifferenti. Cosicché, adesso che è uscito di scena, si spera in via definitiva, corre l'obbligo di elaborare il lutto, o di fare, come dice l'autrice di questo libro, un esame di coscienza minimamente severo. E qui gli italiani mostrano particolare debolezza. Il lutto del fascismo non fu elaborato né punto, né poco. Croce suggerì la teoria della parentesi. Togliatti fece l'amnistia e la Dc diligentemente l'applicò. Nel 1994, quando cadde la repubblica dei partiti, si archiviò di nuovo molto in fretta. I successori non avevano voglia di discutere troppo. In più, nei due casi, c'era qualche attesa per il futuro, che aiutava a cicatrizzare le ferite. Adesso di attese ce ne sono ben poche e le ferite rischiano la cancrena. Quindi, un'accurata elaborazione del lutto sarebbe d'obbligo. Com'è potuto succedere il berlusconismo e cosa ci ha fatto? Il libro di Graziella Priulla aiuta non poco a rispondere a queste domande, a partire dalle parole. Con cui, notoriamente, si fanno tante cose. Più quante non se ne facciano con la coercizione. Il mondo è fatto con le parole, sono le parole che danno nome alle cose, che senza di esse non esisterebbero. E in questo caso le parole hanno contato tantissimo. Il berlusconismo è stato anche una rivoluzione lessicale e semantica. Brillante e ironico, il libro ha anche il merito di mostrare che Berlusconi ci ha messo molto di suo, ma che la rivoluzione delle parole è stata ben più ampia, non ha riguardato solo lui, e la sua spalla, ovvero Bossi, ma ha visto in prima fila un bel pezzo di sinistra, moderata e radicale. Il berlusconismo non è stato l'avventura di un uomo solo. Lui ha provato a rappresentarla in questo modo, lo stesso hanno fatto i suoi avversari, ma dietro il berlusconismo c'è una complessiva involuzione della democrazia italiana, di cui tantissimi sono i segni. Per restare alle parole, chi ha trasformato il ministero della Pubblica istruzione in ministero dell'Istruzione tout court? Manco a dirlo, un illustre esponente della sinistra di governo. Tanti i termini che si prestano alla riflessione dell'autrice. E si dipanano, collegati tra loro, come un filo di Arianna che unisce lo scorso ventennio e i due lustri che l'hanno preparato. Spigolando un po' a caso, incontriamo parole classiche, risemantizzate e brutalizzate: libertà, riforme, fare, promettere. Insieme a parole nuove, o quasi: buonismo, vittimismo, moralismo. Ci sono aggettivi, sostantivi, verbi, locuzioni. Una bella sfilza. Una delle parole che fa più riflettere è il verbo fare. Cui Graziella Priulla suggerisce due opposizioni, il non fare e il pensare. Se non che, l'opposizione più drastica è un'altra: il parlare. È una vecchia storia: tra il dire e il fare… tra l'illusoriamente concreto fare berlusconiano e il vano parlare del "teatrino" della politica, malato di un'antica e deleteria consuetudine "discutidora", il cui ideale è il capirsi vicendevolmente. Il problema, purtroppo, è che la guerra al parlare democratico, all'intesa reciproca, era già cominciata da prima: con il decisionismo craxiano, ma anche con quello dei suoi epigoni, di destra e di sinistra, che, tacciando la politica di eccessiva propensione al discutere e al mediare hanno voluto instaurare al suo posto la democrazia del leader. Termine che non trova, osserva l'autrice, fedele traduzione in italiano, forse perché l'unica traduzione un po' fedele conviene dimenticarla: leader viene da leading, guidare e condurre. E dunque il leader in italiano è nient'altro che il duce. Meglio lasciar perdere. Altro buon esempio è la parola riforma, vittima anch'essa di violenza bipartisan e addirittura planetaria. Le riforme all'indietro degli ultimi due decenni hanno smentito le riforme in avanti dei decenni precedenti, ma si insiste a chiamarle riforme. Per confondere le idee e non solo quelle. Non meno impressionante è l'abuso del termine moralità, che, derubricato a moralismo, è divenuta arma per rimuoverei ogni vincolo morale. Mentre un altro termine di gran moda – competitività, magari zuccherato di sussidiarietà – è servito a cacciare tra i valori obsoleti la solidarietà, di contro consacrando la sopraffazione. Quale la cifra del linguaggio rubato? L'informalità anzitutto. Si parla in pubblico come in privato. Nei palazzi del potere come si parlava in caserma o, oggi, in birreria. È pure un linguaggio violento. Il politichese era tortuoso, involuto, pure un po' ipocrita. Fatto per dire e non dire, per sopire, oscurare, attenuare. La neolingua è fatta per provocare e offendere. Ed è infine una lingua iperbolica, finalizzata all'invettiva e non alla discussione. La bonifica è urgente. Alfio Mastropaolo

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