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Ricordi fotografici - Franco Antonicelli - copertina
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Ricordi fotografici - Franco Antonicelli - copertina
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Dettagli

1988
1 gennaio 1988
142 p., ill.
9788833904313

Voce della critica


recensione di Garin, E., L'Indice 1989, n. 4

Non mi propongo di parlare di Franco Antonicelli in generale, ma solo di questo libro così com'è, come è stato intenzionalmente costruito, e di come in esso si rispecchi la personalità di Antonicelli.
Il libro, subito, nella sua presentazione editoriale, si dichiara perentoriamente "non soltanto un album di fotografie rare e preziose; ha l'ambizione di offrirsi come un libro, sia pure scritto con le immagini. Verrebbe anzi fatto di cominciare col domandarsi: scritto da chi? La memoria corre a circa dieci anni fa, al novembre del '77 alla mostra torinese "Ci fu un tempo. Ricordi fotografici di Franco Antonicelli", al suo catalogo, alle pagine di presentazione di Massimo Mila, all'introduzione e ai testi di Alberto Papuzzi. E già quel confronto è eloquente e dice in più punti qualcosa di non trascurabile. Intanto non c'era allora una parte cospicua di questo libro, l'ultima: "Franco Antonicelli collezionista", ossia cinquanta fotografie non fatte da lui ma di origine diversa: fotografie di tempi diversi dai suoi, di uomini tutti significativi nella storia culturale d'Italia, ma anche in parte, estranei alla sua vicenda. E questo accanto a fotografie dove Antonicelli è presente, che ricordano momenti decisivi della sua vita e che, già comparse nel '77, furono allora sottolineate come particolarmente importanti. Fotografie di uomini - Gobetti - di cui in qualche modo Antonicelli fu a Torino l'erede, o di amici a cui fu fraternamente legato, come Ginzburg; e figure certo presenti nel suo tempo e nel suo orizzonte, ma in realtà molto lontane da lui: per fare un esempio solo, D'Annunzio.
Sulle centoventisette fotografie che costituiscono il libro, ben cinquanta rientrano in questa sezione, disegnando una linea ideale che a poeti "carissimi" come Carducci, a Pascoli e D'Annunzio, fa seguire l'amato Gozzano (otto fotografie), e poi Slataper, Jahier e Onofri, e finalmente Gobetti (cinque fotografie), Noventa, Pavese (cinque fotografie), Ginzburg, e amici, compagni, lo stesso Antonicelli con Mila, Calamandrei, Tommaso Fiore e Cammilla Ravera.
È questo, del libro, il settore che più mi ha fatto riflettere, e che mi ha posto più interrogativi di difficile risposta. Nelle espressioni così umane premesse da Mila a "Ci fu un tempo" si leggeva: "Antonicelli fissava con la fotografia l'immagine delle persone che gli erano care, e raccolse così la documentazione visiva di tutto un mondo, per lo più estraneo alle sfere ufficiali dell'epoca. L'aspetto dell'altra Italia. L'aspetto dell'Italia al bando, quella che non compariva nelle immagini dei film Luce". E a scorrere le fotografie della mostra del '77, oggi, ma con la memoria di quel tempo, la chiave interpretativa di Mila risultava perfetta, impeccabile: un'Italia lontana dalle divise e dalle parate, così umana, fra i libri e la natura, mai in posa: gli allievi di Cosmo e di Zini, del Liceo d'Azeglio, Ada Gobetti, e poi Ginzburg e Pavese. Mila stesso faceva alcuni nomi: "Croce e le figlie, Francesco Flora e Luigi Russo, Augusto Monti e Umberto Cosmo, Zino Zini, Ada Gobetti, Salvatorelli e Carlo Levi, Salvemini, Alberti, Casati, Ginzburg, Pavese, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi. L'Italia libera-libera perché votata all'esilio interno".
Non sfuggiva, certo, a Mila qualche presenza "di personaggi - com'egli diceva - meglio favoriti dai riconoscimenti ufficiali". Ma era Pirandello con la sua grandezza umana e il suo tormento. La sua presenza non intaccava, non troppo, quella visione dell'altra Italia come si era configurata nella civile Torino. "Ci fu un tempo" - anche alla luce della interpretazione di Mila - sembrava davvero illustrare con fotografie appropriate quello che Curzio Malaparte scriveva a Mussolini nel dicembre del '30, vicino alla fine del suo mandato di direttore de "La Stampa", a proposito dell'antifascismo torinese e della sua diffusione: "In una città come Torino, dove il senso politico è affinato dalla natura, da una lunga tradizione liberale, da una cultura largamente diffusa, e, in quanto alle masse, dalla lunga e abile tradizione socialista, certe impressioni fanno presto a comunicarsi da strato a strato fino alla classe operaia. A questo proposito è noto a Vostra Eccellenza che esistono molti vasi comunicanti fra una certa borghesia liberale e universitaria e certi elementi operai, che sono poi quelli che dirigono nascostamente le masse".
"Ci fu un tempo" trovava così nella raffigurazione fotografica dell'altra Italia il suo centro di gravità, chiarissimo: sul piano della cultura, Croce e l'eredità gobettiana, ossia quelli che più tardi, nel '49, lo stesso Antonicelli vedrà come due antifascismi, e fra loro molto diversi: Croce e Parri. Allora essi erano convergenti, e potevano citarsi senza eccessivi problemi le parole stesse di Antonicelli scritte in memoria di Guglielmo Colonnetti: "Ci fu un tempo, difficile da dimenticare, in cui un piccolo gruppo di amici fidati si ritrovava con il più spontaneo piacere per liberare l'animo dall'odioso peso del sospetto, del silenzio prudente, delle preoccupazioni e dei pericoli improvvisi. Ciò avveniva in molte case e città".
Chi, oggi, "legga" come si deve questi "Ricordi fotografici", e rilegga "Ci fu un tempo", non può contentarsi di spiegare la composizione così folta della terza parte, ed anche qualche "presenza" della seconda, con la sola motivazione di Antonicelli fotografo e no. Anche la fotografia n. 53, della seconda parte, fatta a Sordevolo il 27 ottobre 1941 non fu certo scattata da Antonicelli che v'è ritratto fra Bernardelli e Colonnetti. E allora perché trattarla diversamente da quella ben nota che lo ritrae, nel '32, con Pavese, Ginzburg e Frassinelli, all'inizio di una memorabile impresa editoriale: quella "Biblioteca europea" su cui sarà necessario ritornare? È una fotografia veramente "bella" per tutto quello che si può leggere chi di quegli anni ha vivo ancora il ricordo che vi leggeva lo stesso Antonicelli che, guardandola, aveva scritto i versi della "Cartolina a Pavese": "D'improvviso le Langhe! [...] Un'ombra c'è fra noi [...]" (l'ombra di Ginzburg).
A guardare una dopo l'altra le otto belle fotografie di Carducci e, di seguito, Pascoli, e D'Annunzio così ben rappresentato e il tanto amato Gozzano, e poi, così diverso, Gobetti, Slataper e Jahier, Ginzburg e Pavese, Noventa, Rebora e Valeri e Pastonchi, e così via, è difficile non pensare che in questa sorta di ideale galleria della cultura italiana 'par l'image' non ci sia solo l'altra Italia. D'Annunzio, a cui Antonicelli dedicò tanta attenzione, ben più di Pirandello, dette voce a temi che non senza ragione il fascismo considerò suoi. Per non parlare dell'accademico d'Italia Bontempelli (che figura nella seconda sezione). D'altra parte come non vedere in queste immagini le scelte indicative di un mondo di umanità e di cultura con cui Antonicelli dovette pur fare i conti, nonché la varietà degli antifascismi fra loro variamente intrecciati?
Sono andato a rileggere quello che proprio Antonicelli scrisse come introduzione alle non dimenticabili lezioni torinesi del '60 su "Trent'anni di storia italiana": "[...] il fascismo non era stato affatto una parentesi, un imprevedibile elemento di frattura nella storia della democrazia italiana, o una strana escrescenza nel corpo sostanzialmente sano del nostro paese [...] qualcosa insomma destinato a concludersi riportando la situazione al punto di partenza, a sparire, così com'era arrivato, a essere espulso dal corpo come ingrediente estraneo, d'altra natura [...]. Bisognava considerare nel suo complesso quella che non era la storia della sola attività fascista durante un ventennio, ma la storia di tutto quanto un paese coinvolto in quella crisi della libertà, della quale molti e molte situazioni erano responsabili: una parte di esso l'aveva aggravata, un'altra aveva ad essa reagito. Il male e il bene dovevano individuarsi nell'intimo di quella crisi". E non a caso Antonicelli citava le parole di Croce sulla "terribile e salutare scossa data alle nostre anime affinché non dimentichino mai la tragicità della storia".
Ebbene, quel D'Annunzio ritratto a Venezia e a Fiume (e il signorilmente gentile Rilke così "fascista" nelle lettere a Lella Gallarati Scotti); o le immagini di chi cercò a lungo, anche drammaticamente, o tentò di avviare un dialogo (penso, per esempio al Noventa del '36), e perfino, in qualche fotografia, ben visibile, il distintivo all'occhiello del PNF;, vogliono sottolineare, pur nella fedeltà all'altra Italia, un'alta e severa coscienza storica - coscienza di colpe politiche proprio di quella parte a cui apparteneva lo stesso maestro morale di tutto quel "piccolo mondo": Benedetto Croce teorico della "parentesi", di cui Antonicelli citava una volta le parole di una lezione ai giovani dell'istituto napoletano: "Io stesso debbo qualche gratitudine al fascismo perché m'infuse come una nuova giovinezza, rimpiendomi di accresciuta operosità e di spiriti combattenti; mi costrinse a rimeditare problemi politici che altrimenti non avrei ricercati con pari ansia e tanto a fondo; mi fece sentire sempre più che l'opera del pensatore e dello scrittore deve fondersi con quella del cittadino e dell'uomo".
Tutto questo, e va sottolineato, senza assoluzioni. Il male resta male anche nella consapevolezza crescente di una crisi dolorosa e non conclusa. "Il bene e il male - credo che le parole di Antonicelli vadano ancora meditate - si dovevano individuate all'interno di quella crisi, giudicando un bene tutto quello che aveva portato coscientemente alla sua soluzione cioè al recupero della libertà".
Forse la terza sezione degli attuali "Ricordi", che dieci anni fa non c'era, con le sue immagini del passato che si intrecciano a quelle di un difficile presente, significa anche il profondarsi della consapevolezza storica di quello che veramente fu il fascismo per cui esso non è finito n‚ il 25 luglio del '43, n‚ il 25 aprile del '45. E forse, a noi che guardiamo oggi, ricorda che la lotta anche per Antonicelli continuò più consapevole nel suo travaglio politico, dopo il liberalismo, dopo il 18 aprile del '48, nella reazione alla "legge truffa", dopo la rivolta contro il governo Tambroni, per cui ancora una volta sarebbe stato incriminato e condannato nel '64 a otto mesi di reclusione (con la condizionale) per apologia di reato. No, la parentesi, che con buona pace del Croce parentesi non era stata, non era finita, e Antonicelli continuava la sua guerra con misura pari solo alla sua intransigenza.
Torna alla memoria la lettera che il 9 settembre 1947 Cesare Pavese scrisse a Fabrizio Onofri, che chiedeva informazioni che interessavano il Partito comunista: "Franco Antonicelli, ex-liberale, repubblicano, attualmente orientato verso il socialismo [...] personalmente è uno dei tipi più significativi di Torino. Lo conosco da tempo e so che è uomo onestissimo, sinceramente democratico, coraggioso (è stato presidente del CLN piemontese) e gli nuoce forse soltanto una certa mondanità dell'ambiente in cui vive. Ma è anche e soprattutto un fine umanista e dirige la Casa Editrice De Silva, che è una specie di Einaudi [...] anteguerra". Con una battuta ironica Pavese aggiungeva: "Sostanzialmente situato come lui (a parte la salotteria) è Massimo Mila, ex-partigiano, PdA, crociano in filosofia, musicologo di professione, allievo di Augusto Monti". Di fatto, pur con la "salotteria", Antonicelli avrebbe continuato, con coerenza e fedeltà, entro quel mondo di superiore misura che si rispecchia visivamente appunto in questi "Ricordi".
La fotografia del 1932 era davvero la sintesi per immagine di uno dei punti alti della attività di Antonicelli, e quasi il segno tangibile di un lampo felice della cultura torinese: la "Biblioteca europea". Ha osservato giustamente Bobbio qualche anno fa: "La fuggevole apparizione della 'Biblioteca europea' è un bel capitolo della storia di una Torino cosmopolitica ben diversa dalla 'stanca' Torino di cui aveva parlato Gobetti, o dalla Torino gozzaniana che l'aveva preceduta, e che perciò stesso ignorava il fascismo e addirittura lo sfidava".
Fu in quegli anni che sentii per la prima volta fare il nome di Antonicelli. Ero amico di Renato Poggioli. Eravamo stati compagni al Liceo "Galileo". Nell'autunno del '25 ci eravamo iscritti alla facoltà di Lettere di una Firenze insanguinata dalla "notte dell'Apocalisse". Poggioli si sarebbe laureato sui simbolisti russi con Nicola Ottokar, io in filosofia morale con Limentani. Poggioli non amava molto la filosofia, ma io divoravo i romanzieri russi che la "Slavia" ci faceva arrivare da Torino, e cercavo di leggere i poeti. Poggioli mi declamava le sue libere versioni di Blok, di Esenin, della Achmatova, "I Dodici", insomma la prima "Violetta notturna". Così, dopo molto parlarne, venne anche la sua traduzione de "L'armata a cavallo" di Babel, il primo dei volumi della "Biblioteca europea", e ne rivedo la copertina con la sagoma del cavaliere in stoffa rossa incollata sopra. Poi vennero "Moby Dick" di Melville tradotto da Pavese, "Riso nero" di Anderson, "Dedalus" di Joyce, Kafka, "Huck Finn" di Twain. Oggi par quasi impossibile, ma prima del '35, prima delle "inique sanzioni", circolavano abbastanza libri e riviste, solo a volerli, e se anche stava per cominciare una lunga agonia, ancora non lo sapevamo.
Con la "Biblioteca europea" Antonicelli si collocava nella scia di Gobetti editore, realizzando per un momento quell'immagine dell"'editore ideale" che Gobetti aveva delineato in un frammento che proprio Antonicelli avrebbe pubblicato nel '66 (per i tipi di Vanni Scheiwiller). Non a caso, e non a torto, Bobbio ricordava come Giulio Einaudi sottolineasse "quanto egli dovesse all'esempio di Antonicelli e alla sua iniziativa editoriale che andava suscitando meraviglia e ammirazione fra gli amici". Einaudi iscriveva la nuova ditta alla Camera di Commercio di Torino il 15 novembre 1933; Antonicelli aveva cominciato l'anno prima. Nel '34 dava inizio alla collaborazione a "La Cultura", che Einaudi aveva affidato a Cajumi. Ma nel maggio del '35, il 15, anche Antonicelli fu arrestato nella retata provocata dalle delazioni di Pitigrilli (Dino Segre), e condannato al confino a Agropoli, piccolo comune del Cilento. E proprio lì comincia a fotografare, quasi per caso. La signorina che diverrà sua moglie gli lascia la sua macchina, e lui comincia, così, come amava buttar giù schizzi e disegni, e note di diario: note di diario anche le fotografie. Alberto Papuzzi, nel catalogo del '77, trascrisse una chi quelle pagine, così significativa che ancora Franco Contorbia ne riprende un frammento per concludere oggi, su di esso, l'introduzione a questi "Ricordi fotografici": "Perché la fotografia abbia un senso bisogna che l'ironia sia abolita. L'ironia, strisciando come serpe, accompagna la nostra vita e l'inesorabile vecchiaia. Ricordiamoci che ne siamo insidiati. Piuttosto una tenerezza seria, un po' di dolore, come è giusto, perché chi non si duole del passato che si strugge non è un forte, è semplicemente uno che non ha vissuto". Tenerezza e dolore, non ironia.
Una volta un fotografo di un grande settimanale che a volte faceva fotografie crudeli, mi confessava che con la sola fotografia si sentiva capace di distruggere una persona, di renderla ridicola, o anche soltanto di svuotarla, di ridurla a un guscio. Antonicelli, in quel suo esorcismo dell'ironia, in quel suo appello alla "tenerezza" e a un po' di dolore, non solo mostra di essere consapevole del fatto che la fotografia, lungi dall'essere uno specchio fedele, può diventare artefice di una storiografia di parte: tendenziosa, crudele, cattiva; dichiara un programma che la sua fotografia cercherà di realizzare: una storia senza rulli di tamburo, di umanità operosa e dolente ("un po' di dolore"). In quella nota scriveva ancora: "la fotografia non esalta come il quadro; umilia. Dissolve nella storia, diluisce nei ricordi". La storia che le sue fotografie raccontano è fatta soprattutto dei momenti d'ogni giorno, degli affetti di casa, della difficile fedeltà alla morale quotidiana, della controllata consapevolezza d'ogni gesto. La fotografia di Antonicelli come non ferisce col sarcasmo così non isola il bel gesto: racconta il filosofo al lavoro come a passeggio, gli amici che vogliono ricordare un incontro e un panorama, un gruppo di uomini che fanno qualcosa che mette conto: una vita che continua a risolvere la storia nel gesto d'ogni giorno, e a dissolvere il dramma nei ricordi.
La parte centrale di questi "Ricordi fotografici" è certo rappresentata dal secondo gruppo di fotografie, il più numeroso (57), il più omogeneo, di cui la maggior parte appartiene a un breve giro d'anni e si dispone idealmente intorno alla figura di Croce, dei familiari di Croce, dei suoi fedelissimi (almeno allora). In un testo già citato in parte, Antonicelli continuava indicando con precisione le coordinate spazio-temporali degli incontri. "Il tempo - scriveva - era quello del fascismo. Il gruppo, di cui posso parlare con maggiore conoscenza, era quello che di solito si ricostruiva ogni estate nel Biellese, a Sordevolo e a Pollone. Topograficamente la panoramica strada serpeggiante fra i due paesi può segnare i legami fra i componenti del gruppo, che si spostava ora in una casa, ora nell'altra. Due erano i ritrovi principali: la villetta abitata, credo dal 1934, da Benedetto Croce a Pollone e la villa da molto più tempo di proprietà di Annibale Germano a Sordevolo. La prima, s'intende, era meta di illustri visite, non troppo segrete e in parte tollerate; la seconda non meno, in parte come riflesso o appendice della prima".
Le immagini fotografiche, queste immagini, tessono una storia che intreccia personaggi e motivi così come si intrecciavano allora nel lento maturare della formazione politica di Antonicelli. Al centro Croce, padre di famiglia, studioso assiduo, liberale fedele difensore dei suoi principi. Se anche traspare in qualcuna di queste immagini, quel Croce non è il Croce enigmatico di un mirabile testo di Renato Serra che Contorbia richiama: "attraverso la bonomia tranquilla, pingue, un po' floscia e sorridente [ ..] di napoletano miope e senza gesti [...] si rivela a tratti la maschera dura pesante tetra di un pensiero ignoto". Niente di tutto questo. Per Antonicelli in quegli anni Croce era la pura religione della libertà, chiara, a cui tener fede senza problemi. C'è una nota di diario, del 9 aprile '49, pubblicata da Stajano, che colpisce: "Incontrai Croce, che ho sempre amato come un padre [...]. Al di là di Croce non vedevo. I marxisti non sapevo cosa fossero". Ammirava sì Gobetti, ma senza capirlo. "Non capivo nulla di lui, non compresi se non più tardi che cosa fosse quella terribile parola 'rivoluzione' ch'egli accoppiava alla parola 'liberale"'. La sua stessa intransigenza morale - confessava Antonicelli - era in lui "un'intransigenza [...] più spontanea che programmatica [...]: un dovere naturale".
Eppure, chi continui a "leggere" queste fotografie vede bene, accanto agli ospiti di Pollone gli ospiti Sordevolo, "gli amici fidati" nella "grande casa ospitale": il gruppo torinese, visitatori quasi tutti di Pollone e di Croce, ma anche di altre generazioni e di diversa formazione politica, spregiudicati, che sentivano sempre più forti, accanto a quelle della "libertà", le sollecitazioni della "giustizia", come il gruppo dei toscani, con Calamandrei e Pancrazi.
Ovviamente le immagini dicono anche altro: dicono subito che le fotografie di Salvemini, con la Allason e con Carlo Levi, sono di un altro tempo, del '47, quando per Antonicelli era cominciato un più lungo cammino, una sofferta partecipazione al "dopo il fascismo", quando si rese conto che la "liberazione" non era stata "tutta la libertà", che conquistato era solo il diritto alla lotta aperta, ma che quella lotta era tutta da combattere, quotidianamente, perché il fascismo non era una parentesi chiusa. C'è un testo, pubblicato per la prima volta da Stajano, del 14 marzo 1951, su Gobetti: su un Gobetti che mostra che Croce aveva torto, che "il fascismo non era un avvenimento imprevisto e contingente" e che n‚ il '43 n‚ il '45 ne erano stati la conclusione. Gobetti - questo diceva Antonicelli - "aveva preparato, bandito una battaglia politica contro Mussolini e contro tutto intero il fascismo"; purtroppo Mussolini non è caduto in una battaglia politica, ma vittima di se stesso e della fraudolenta coorte dei suoi pretoriani; in quanto al fascismo, se per fascismo s'intende quel che giustamente Gobetti intendeva, "il prodotto di una crisi storica", non esitiamo a dire che essendo la crisi ancora in pieno sviluppo [...], il fascismo è ancora vivo, con qualche lieve differenza di aspetto, o per lo meno attende ancora la sua morte".
Nel discorso del 4 dicembre '49, all'Alfieri di Torino, con grande lucidità Antonicelli aveva detto: "nella Resistenza confluivano due antifascismi: l'antifascismo di quelli che nel fascismo avevano gradatamente scoperto la soperchieria, l'ignoranza, la volgarità, la violenza, il tradimento verso il vecchio Stato Liberale: in nome del "buon costume" si erano rivoltati, in forme varie, per lo più calme e riservate, nello sdegno, nel silenzio, nella separazione netta delle responsabilità [...]. Il fascismo era considerato da essi una parentesi nella storia politica italiana.
C'era un altro antifascismo, quello che vedeva nel fascismo lo schieramento delle forze reazionarie Italiane, con alcuni disordinati investimenti. Per questi il fascismo sarebbe finito con il dominio della vecchia classe dirigente: ragione per cui quell'antifascismo avrebbe continuato la sua lotta, dopo la prima "liberazione". C'erano insomma quelli per cui c'era stata sino al fascismo una vita democratica insufficiente, e quelli per cui quella democrazia era stata sufficiente e lodevolissima. C'era Parri e c'era Croce". Antonicelli, che era stato con Croce, adesso era con Parri, e continuò la sua lotta fino al '74, facendo davvero un lungo viaggio, mentre le questure ricominciavano a occuparsi di lui, i tribunali lo condannavano e le corti d'appello lo assolvevano per insufficienza di prove. Ma questa è un'altra storia, che non è in questo libro.
Anche se ci sono fotografie della fine degli anni cinquanta, e un Antonicelli senatore nel '72, il libro in realtà si chiude molto prima, nel '42. A volere, con la bella immagine di Antonicelli e Parri a Torino nel '45, che guardano sorridendo verso il futuro: quasi un'epigrafe. In politica la sua scelta conclusiva fu ferma e chiara; ma non meno chiara e ferma rimase la sua fedeltà a un credo morale. Anche per sé, in morte di Croce, volle ripetere le umane parole di Croce: "la vita intera è preparazione alla morte, e non c'è da fare altro fino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano". 'Attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano...'

"Questo testo riproduce con alcune varianti, l'intervento tenuto da Eugenio Garin al gabinetto Vieusseux di Firenze l'11 febbraio scorso, in occasione della presentazione del libro di Antonicelli."

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