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scheda di Arbo, A., L'Indice 1995, n. 5
Londra, 13 aprile 1737. Al numero 25 di Brookstreet, in una casa che i vicini considerano da tempo una "gabbia di matti" accade un fatto inaspettato. È un tonfo sordo, seguito da un improvviso silenzio. Il domestico accorre subito al piano di sopra: il suo padrone, Georg Friedrich Haendel, giace accasciato sul pavimento. Incomincia così il dramma del celebre musicista colpito da paralisi. La potenza misteriosa che riuscirà a strapparlo all'inerzia è l'estremo sforzo della volontà di un genio. Dopo aver sfidato la morte gettandosi nella composizione di opere e oratori, Haendel si concentra sulla partitura del "Messia". Il risultato, dopo sole tre settimane, è un'opera che resta alla storia. È soprattutto il mito del genio a circolare nel racconto di Stefan Zweig. Una novella edificante, che esprime l'ammirazione che lo scrittore nutriva per i grandi musicisti del presente e del passato, protagonisti di un mondo interiore tutto avvolto nel suo inconfondibile alone di romanticismo. L'entusiasmo si trasforma in un linguaggio che oggi non può che apparirci un po' scontato, gonfio e poco efficace in rapporto alle situazioni drammatiche. Più simpatica la cronaca di una rappresentazione del "Parsifal" a New York, dove una punta di ironia alleggerisce la nostalgica difesa di un Wagner sacrale e tedesco, malauguratamente trapiantato in quella "terra pratica". A cominciare da quel "grasso direttore d'orchestra" (ma può un direttore metter su pancia; mi domando?), il quale "si issa a fatica - è molto grasso - sul podio". Segue un ricordo di Busoni rapito nell'estasi creativa e, a coronamento, l'ammirazione per due direttori dei quali Zweig, per ragioni non soltanto culturali, non si è mai sognato di misurare la pancia: Bruno Walter e Arturo Toscanini.
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