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Si aggira da tempo per gli Stati Uniti una strana e complessa cosa che va sotto il nome di «correttezza politica». Piccoli gruppi di intellettuali, per lo più professori e spesso abbastanza ignoranti, maltrattano la cultura storica e letteraria e il linguaggio quotidiano: la Sfinge aveva il naso negroide, e i bianchi glielo hanno abbattuto a cannonate per nascondere la gloriosa storia culturale dell'Africa nera; qualsiasi rapporto tra una femmina e un maschio è uno stupro; Shakespeare era un bianco dominatore che non trattò il problema degli indiani d'America e degli omosessuali.In Italia non c'è quasi nulla di simile, al contrario si diffonde quella che Barbara Spinelli ha chiamato «la nuova sfacciataggine». Eppure non è affatto necessario condividere gli eccessi teorici e pratici dei «politicamente corretti» per accettare un confronto sulle valenze offensive del linguaggio di tutti i giorni. Anche perché non si tratta soltanto di «non offendere», ma soprattutto di abituarsi a non percepire il mondo degli uomini (e delle donne) attraverso le categorie e i criteri di rilevanza messi assieme da millenni di guerre e sopraffazioni. La presa di coscienza dell'importanza del linguaggio è, in definitiva, un elemento non trascurabile della riflessione sulla tolleranza, e il linguaggio non offensivo è uno strumento di convivenza su cui è sciocco far sempre e soltanto del sarcasmo.
scheda di Galeotti, A.E., L'Indice 1996, n. 6
Per "political correctness" si intende l'atteggiamento dogmatico e rigido con cui gruppi radicali e di sinistra americani affrontano nel linguaggio e nei comportamenti quotidiani il modo di rapportarsi alle minoranze e ai gruppi oppressi. Problema sollevato dai conservatori nei primi anni novanta come vessillo contro le richieste del multiculturalismo, il termine è rimbalzato anche da noi soprattutto nella chiacchiera giornalistica e usato variamente nella politica di casa come mostro illiberale da cui difendersi. Il pamphlet di Baroncelli è il primo lavoro, a mia conoscenza, che cerca di fare ordine e giustizia in questa controversia pompata a dismisura, mostrando tra l'altro che condividere le ragioni di un linguaggio non offensivo nei confronti di donne, omosessuali, minoranze culturali varie non implica necessariamente l'abbandono del senso dell'umorismo. In sintesi la tesi di Baroncelli è la seguente: il fastidio che la modificazione di alcune forme linguistiche e atteggiamenti inveterati genera in noi è il prezzo, in fondo modesto, che le maggioranze culturali e morali devono pagare per trattare con rispetto gli individui appartenenti a gruppi oppressi, al di là delle esagerazioni e delle sciocchezze dei fanatici di un linguaggio purificato.
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