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recensione di Di Francesco, M., L'Indice 1994, n. 1
Dopo aver contribuito in modo determinante alla genesi di uno dei programmi di ricerca più promettenti della filosofia della mente contemporanea, il "funzionalismo" (e all'affermazione della correlata analogia tra menti e programmi), Hilary Putnam, in "Rappresentazione e realtà", ci mette ora in guardia nei confronti di questa che è tra le più note delle sue creature filosofiche. Il funzionalismo venne elaborato da Putnam in alcuni importanti saggi degli anni settanta (oggi ristampati in "Mente, linguaggio e realtà", Adelphi, 1988), partendo dalla critica della teoria materialistica dell'identità tra stati psicologici e stati fisici nel cervello, per il funzionalismo uno stato mentale non deve essere identificato con uno stato cerebrale, quanto piuttosto con il "ruolo funzionale" svolto nella determinazione del comportamento dell'individuo. Ciò apre la strada all'idea che la mente possa essere assimilata a una sorta di programma, implementabile in linea di principio da una qualunque struttura materiale, non necessariamente dal solo cervello (umano e biologico). Secondo Putnam, il funzionalismo era dunque "una reazione contro l'idea che la nostra materia sia più importante della nostra funzione, che il nostro cosa sia più importante del nostro come". Tuttavia oggi egli è giunto alla conclusione che l'illusione di trovare un algoritmo (un programma) capace di esprimere il contenuto della nostra mente e la sua capacità rappresentativa deve essere abbandonata: se è sbagliato identificare l'"essenza delle nostre menti" con il nostro "hardware", lo stesso può dirsi per la loro identificazione con un (particolare) "software". I motivi di ciò sono molteplici e il volume li elenca scrupolosamente attraverso una difficile (e controversa) lettura dei più recenti risultati della filosofia della mente funzionalista, ma in fondo essi si originano da un'altra delle grandi dottrine putnamiane: l'idea che "i significati non sono nella testa", che quello che chiamiamo il nostro contenuto mentale è determinato da una serie di fattori (compresi i fattori contestuali) che non solo non possono essere esplicitati in termini meramente descrittivi; ma che seguono una logica "olistica" che rende disperata l'impresa di ricostruirne una lettura univoca e computazionalmente definita. In conclusione: "gli stati mentali non possono essere letteralmente programmi, perché sistemi fisicamente possibili possono trovarsi nello stesso stato mentale, avendo tuttavia contemporaneamente 'programmi' diversi". La conclusione del volume è schiettamente antiriduzionista: "l'intenzionalità non verrà ridotta e non se ne andrà via", ovvero l'intenzionalità del mentale non si spiega n‚ riducendola a proprietà neurofisiologiche del cervello, n‚ assimilandola a un particolare stato computazionale.
In conclusione abbiamo un testo interessante e che si avvale di un'ottima traduzione - tra le pochissime scelte di Guicciardini che metterei in discussione vi sono quella di tradurre "folk psychology" con "psicologia popolare" (come alternativa suggerirei "psicologia del senso comune") e " " con "contenuto stretto" (l'alternativa è "contenuto ristretto"), ma si tratta di sfumature rispetto a un lavoro di notevole serietà e rigore.
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