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recensione di Villari, A., L'Indice 1996, n. 6
La felice tesi di laurea discussa con Roberto Longhi nel 1956 da una futura "femminista storica", tesi quasi immediatamente perduta e ritrovata solo due anni fa da Moreno Bucci, è oggi pubblicata nella collana "Studi" della Fondazione Carlo Marchi.Se la sola vicenda potrebbe bastare a suscitare qualche curiosità, è il tema trattato che si impone ancora, a quarant'anni di distanza, come nuovo e fecondo: il rapporto tra scena e pittura, arti figurative e scenografia teatrale è stato studiato solo in parte, e Carla Lonzi lo affrontò allora con grande rigore e coraggio. La ricerca non era semplice: una bibliografia scarsa, per lo più straniera e poco reperibile, portò l'autrice a frequentare biblioteche private, archivi di teatri, a incontrare e intervistare artisti, pittori, scenografi, con quel desiderio di confronto diretto, di attiva verifica che sarà poi della giovane critica militante, fino a quando non abbandonerà questa attività nel1970 proprio perché contraria al ruolo fondamentalmente passivo che da un critico si pretendeva.Lavorare "non solo di mente ma di circostanze, non solo parlando, scrivendo, ma allacciando rapporti umani" dirà anni dopo, e una così intensa comprensione con il soggetto affrontato è più che percepibile nella prosa sbrigliata del testo, più rapida, analogica, ironica via via che si procede, e gli spettacoli evocati sono quasi evento del momento.
Carla Lonzi parte dall'analisi delle fonti settecentesche (Algarotti e le innovazioni di Ferdinando Bibiena) e si sofferma sulla riduzione della scenografia, durante l'Ottocento, da meraviglioso universo inventato a verosimile atmosfera dipinta. A fine secolo, se il teatro non è più inteso come recitazione di testi ma come spettacolo e forma di espressione pressoché completa, la scenografia si libera dal vincolo del verismo e dell'evocazione storica per appropriarsi di mondi nuovi, fantastici, sognati, interiori. Comincia forse proprio qui quella collaborazione consapevole e propositiva tra pittori e registi, arti figurative e teatro (il balletto in primo luogo) che vede insieme, ad esempio,Russia con Francia, Diaghilev e i Ballets Russes con, tra i tanti, i Nabis, Leon Bakst, Picasso, de Chirico, in uno scambio continuo di suggestioni e formule stilistiche.
Ecco, da questo momento, messinscene che hanno l'aspetto di quadri cubisti, metafisici, costruttivisti e meccanici, razionalisti. Ma ancora, le sperimentazioni futuriste arricchiscono il repertorio delle soluzioni scenografiche, la pittura invade il palcoscenico, e il gusto di pittori-scenografi come Depero o Prampolini si riflette sulla scelta dei costumi, delle luci - fasci mobili, coloratissimi -, degli oggetti, di un'umanità meccanizzata e rumorosa.
Più tradizionalista il campo della scena lirica, "roccaforte della tela dipinta": e quando ci si aprirà alla collaborazione con i pittori, le scenografie saranno, non poteva essere altrimenti, novecentiste e neoprimitive. I paesaggi e gli interni di Sironi, Carrà, Funi, sono geometrie larghe, spoglie, solide, ma già a partire dal famoso I Maggio Musicale Fiorentino del 1933 de Chirico stupisce il pubblico reinventando completamente I Puritani di Bellini e affermando il ruolo prepotentemente e arbitrariamente creativo del pittore-scenografo. Sono ancora altri - e tutti vivissimi - gli spunti di ricerca, e curiosamente attuali alcune proposte scenografiche su cui l'autrice, con intuito sottile, si sofferma: la teoria del1920 di Achille Ricciardi sull'uso di colori puri per suggerire il carattere dei personaggi ricorda tanto l'ultimissimo allestimento di Achim Freyer (marzo 1996) del "Don Giovanni" di Mozart.
"Il mondo dell'arte la celebra e la rimpiange" scrive Marta Lonzi a proposito della sorella, scomparsa nel 1982. In appendice una biografia ne traccia il profilo di studiosa e critica consapevole, di donna impegnata che della vita e dell'arte non ha voluto essere solo spettatrice, dimostrando una volontà fortissima di andare sempre, curiosa, "dietro le quinte".
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