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Paolo Bertolani è un poeta che crede fermamente alla voce e al nerbo (non oso dire alla forza) della poesia. Una fiducia oggi forse poco condivisa dagli stessi autori, ma che lui invera ancora assai persuasivamente come attesta questa Raità da neve . Bertolani ha inoltre scelto la via a un tempo meno facile per avere udienza: il dialetto, e che dialetto, un ligure di levante assai impuro, del territorio di Lerici da cui non si è mai mosso. Ma la sua Lerici non è quella romantica di Shelley dagli ampi spazi marini, bensì una campagna magra, alta sul mare, con vigne, ulivi e pecore, con un borgo umano di semplici, quanto vivaci interlocutori, da Seinà (Einaudi, 1985) fino a oggi. Netta l'integrazione tra ambiente e lingua, come per una necessitata vocazione di perfetta identità con quel particolare paese (la frazione La Serra, sopra Lerici), da cui non è possibile uscire.
Il serrese di Bertolani è un dialetto ligure (ma non privo di influssi emiliani), più tenero del genovese, con meno vocali turbate e con meno increspature consonantiche; anche la cadenza fonica induce a una sobria cantilenante malinconia, che sembra il naturale bordone di questo registro espressivo. Il suo dialetto si mantiene fedele alla tradizione lirico-preziosa del ligure (da Foglietta a Firpo), anche se non credo proprio che dietro il codice di queste poesie ci siano i precedenti locali, quanto un cotè significativo e netto della poesia del novecento, di quell'area esistenziale che va da Sbarbaro, Rebora e Montale, a Sereni e Bertolucci, così affettuosamente praticati nella vita da Bertolani e ben presenti, con il rispettivo nome di Vittorio e Attilio in varie poesie. Se da Sereni discende l'impianto elegiaco e il sobrio struggimento della nozione e pratica di poesia, da Bertolucci deriva piuttosto il gusto del quotidiano, del racconto e delle misure prosastiche.
L'impegno di testimoniare un mondo di campagna via via sempre più fioco, se non estinto, ha sempre portato Bertolani a mettere in campo il tema del morire. Non della morte, ma del vario venir meno all'umana compagnia. Questo rovello attorno a quello che Montale chiamava il "trabocchetto" diventa ora ossessivo in Raità da neve , un libro peraltro vario e ricco in questa ossessione. Da un lato ci sono le prosopopee di antichi mestieri (il lanaiolo, il cavatore, il venditore ambulante di menta), un po' alla Baldini, ma meno nevrotiche e meno avvitate, più lineari, ma anche inermi e irritate verso lo "scàndolo de andàssene" (scandalo di andarsene); dall'altro le poesie dell'io, con alcuni soprassalti di tenerezza domestica e amorosa, con misure allegoriche (la neve, appunto, fragile e finta in riviera come la vita) e con netti tagli realistici e arguti. E quasi sempre il morire, ma in mille posizioni diverse e sempre cangianti: annidato dentro l'eros ("te m'lé disévi tòcheme, / che nicò lì l'è carne / che dovia morire" - me lo dicevi: toccami, / che anche lì è carne / che dovrà morire"), nei brandelli di memoria, nelle storie di paese, nella lebbra del paesaggio. Ma non è mai maniera, anzi il deliberato eccesso del tema depone per la sua autenticità, per il continuo dar di testa contro questo rompicapo, senza alcuna soluzione o consolazione, in una lingua assai parlata, quanto cordiale che la preziosità dialettale stranisce con la sua malia di parole intraducibili: "Bordele", "Brezinìm", "bordigame".
Stefano Verdino
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