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1992
1 gennaio 1992
260 p., ill.
9788877990235

Voce della critica


recensione di Patrizi, G., L'Indice 1992, n.11
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992 presso Lombardi)

Un compito di cui dovrà farsi carico lo storiografo della letteratura di fine secolo, alla ricerca di un'adeguata fisionomia dei generi letterari del Novecento, è quello di ridisegnare le tradizioni degli ultimi cento anni. Troppo abituati forse alle etichette storiografiche, occorre in realtà ripensare la fortissima mescolanza degli stilli per cui spesso appare nutrita di tecniche sperimentali la misura stilistica di pacati fautori della tradizione; e viceversa naturalmente, essendo le vicende della scrittura novecentesca intessute di scambi, palinodie, talvolta opportunismi.
Viene alla mente questa necessità se si ripercorrono le pagine di scrittori, in attesa di recupero critico, che appaiono capaci di rivelare originali ibridazioni dei modelli. Un esempio è Mario Puccini: questo realista "di provincia" - autore di un romanzo sulla guerra ("Il soldato Cola", in prima edizione nel '27) che fu salutato da Thomas Mann come una delle poche autentiche testimonianze di quell'umanità che si aggirava per i campi di battaglia -, riletto alla luce dei "Racconti cupi" (apparsi nel 722), riproposti da Enrico Ghidetti per i "Grandi minori" dell'editore Lombardi, acquista sfumature preziose e inconsuete. Tanto da costringere a ripensare il modello verghiano, dallo stesso Puccini tante volte richiamato come una scelta di bandiera, una collocazione di campo di poetica. Il Verga a cui Puccini dedica uno dei suoi romanzi più belli, "Dove è il peccato è Dio" ( 1922), ha in realtà un duplice significato: di simbolo per una rigorosa battaglia antidannunziana e di riferimento ad un maestro del racconto che ha fornito al romanzo novecentesco modelli molto più duttili di quanto si sia abituati a pensare.
Puccini è in quella dimensione del realismo di Verga (e di Capuana) che conduce nel profondo della psicologia dei personaggi, e giustamente Ghidetti ricordava la linea Capuana-Pirandello come un itinerario dal realismo al surrealismo: una linea a cui Puccini guarda per mutuarne soluzioni stilistiche e prospettive narrative e per saggiare la possibilità di rendere tanto elastico l'impianto verista da poter accogliere l'ambiguità di personaggi che si muovono tra mondo della realtà e mondo degli incubi o tra contorta ma lucida autocoscienza e morbosa esaltazione.
Se poi si va a rileggere il singolare "Romanzo di un viaggiatore in poesia", come suona il sottotitolo di "Viva l'anarchia" (del 1920) - sorta di metaromanzo, diario attraverso l'Italia di un venditore di libri, fedele assertore di una letteratura realista, verghiana, che si confronta con le nuove forme dell'arte novecentesca - si comprenderà meglio la ricerca di Puccini: un periodare capace di assumere dalla realtà narrata il dato oggettivo, proiettandolo o in un contesto che rimandi a una realtà parallela inquietante o in una scena su cui si rappresenti lo scontro dei linguaggi, delle passioni, delle idee. Insomma, non appare del tutto estranea a Puccini la strategia che il protagonista di "Viva l'anarchia" individuava nel teatro grottesco di Cavacchioli: riduzione all'essenziale della tecnica verista e creazione di personaggi-fantasma, "burattini" capaci di suggerire un "desiderio oscuro di irraggiungibili forme". In questa prospettiva si capirà meglio perché la misura più felice di Puccini sia quella del racconto, di una costruzione non complessa in cui l'equilibrio tra realtà e mondo simbolico della ragione e delle passioni sia più controllabile. In questa misura - in cui vanno annoverati anche i singoli episodi, alcuni magistrali, su cui si costruiscono i due migliori romanzi pucciniani prima citati - anche il linguaggio riesce a conservare la capacità di essere preciso ed ambiguo: ambiguo perché esatto, ma senza un contesto adeguato.
"Il forte X", forse il racconto migliore, è tutto giocato sull'ambiguità di minimi eventi che tendono a decontestualizzarsi, ad assumere i tratti di una surrealtà malvagia e sono ricondotti a forza nell'alveo del quotidiano solo dalla volontà razionale quanto disperata del protagonista. Ciò che colpisce è la capacità di mantenere questo duplice registro senza cadere in alcun facile simbolismo o metafisica; così come il grottesco-macabro di "Due risate" (Lucilio, in cui Puccini avrebbe voluto ricordare l'amico Lucini, insegna a ridere ai microbi che infestano il proprio corpo, fin dopo la morte) svolge un intrigante esercizio dell'immaginazione ma senza pretendere di assolutizzare in alcun universo diverso, parallelo, i singolari eventi narrati. Ogni gesto, ogni fatto è riconducibile ad una patologia, ad una estremizzazione del mondo quotidiano, magari ai suoi risvolti onirici ma senza alcuna uscita - o fuga - da esso. "Gli amanti di Claudina", che narra il patologico rapporto di una giovane con tre anziani, "Uno strano contagio", "Il mio amico Bonella", "L'amico", "Un bevitore giovane e un bevitore vecchio" sono tutti racconti che rappresentano inquietanti rapporti con gli altri, parenti, amici, vicini, incontri di tutti i giorni: ed ancora una volta la loro forza narrativa è proprio in un impianto realistico, che pure consente a Puccini di slittare - o meglio suggerire al lettore uno slittamento che forse non c'è - dalla realtà alla surrealtà, con effetti non lontani, pur nella distanza di tecniche, da quelli di un Landolfi. Il racconto che chiude la raccolta, "L'uomo dal cappello grigio" è esemplare per la capacità di trasfigurare via via l'osservazione di un interno di clinica nell'allegoria di un luogo infernale dove si amministra la morte e dove tutto si tinge di diabolico.
Nella narrativa di Puccini i "Racconti cupi" occupano il posto di un laboratorio di sperimentazione, dove si tende al massimo la capacità espressiva della tecnica verista: il grande ammiratore di Verga capiva che la lezione più proficua del maestro siciliano era quella di un lavoro di utilizzazione della realtà che poteva consentire, se fatto ad arte, qualsiasi avventura novecentesca.

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Conosci l'autore

Mario Puccini

(Senigallia, Ancona, 1887 - Roma 1957) narratore italiano. Collaboratore della «Voce», esordì nella linea del realismo «provinciale» con le Novelle semplici (1907), cui seguirono altri volumi di racconti e prose varie (La viottola, 1912; Foville, 1914; Piccolo mastro spirituale, 1916), mettendo a punto un’acuta analisi delle «coscienze inquiete», in uno stile fermo e disadorno, immune da tentazioni estetizzanti e bilanciato tra modello verghiano e psicologismo russo. Dall’esperienza di combattente nacquero i diari Dal Carso al Piave (1918), Davanti a Trieste (1918), Come ho visto il Friuli (1919) e, a distanza di anni, il romanzo Cola (1927; poi con il titolo Il soldato Cola, 1935), che fu salutato da Th. Mann come «una delle migliori e più pure espressioni del verismo italiano», capace di...

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