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Raccontare il postmoderno - Remo Ceserani - copertina

Descrizione


Quando, all'inizio degli anni ottanta, in Italia si comincia a parlare di postmoderno, il termine rivela una notevole capacità di espansione: attraversa molti campi del sapere, dall'architettura alla sociologia alla filosofia: si insedia stabilmente nei "media"; orienta, nel bene e nel male, il costume e i modi di abitare. Rispetto alla modernità, e alle sue potenzialità irrealizzate o ancora da realizzare, il postmoderno appare liberatorio, giocoso, frenetico, amante della combinatoria - di stili, di epoche, di metodi - e del virtualismo, e, in un certo senso, più "democratico": smessa la distinzione moderna tra cultura elitaria e cultura di massa, è attratto dalla dimensione omologante del consumo e dagli spazi metropolitani in cui questo si esercita. Sebbene non ci sia stato dibattito su temi politico-culturali che non l'abbia doverosamente citata, da noi la questione del postmoderno è tutt'altro che definita, anzi stenta a trovare vera ospitalità soprattutto fra gli storici della cultura e della letteratura. Il libro di Ceserani è il primo, riuscito tentativo di porla al centro dell'attenzione. Opere narrative, categorie filosofiche, aneddoti rivelatori, prodotti di design: nulla è ignorato da questo documentatissimo "vademecum", che fa uscire il postmoderno dalla nebulosa della moda linguistica.
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Dettagli

9
1997
14 febbraio 1997
242 p., Brossura
9788833910178

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Ilario
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Il primo vademecum per orientarsi in un fenomeno molto "parlato" e poco conosciuto.

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Voce della critica


recensione di Cazzato, L., L'Indice 1997, n. 8

Tutti sanno ormai che il mondo è cambiato.Ma non tutti sanno che i cambiamenti che stiamo vivendo (crollo del muro, tragedia jugoslava, Berlusconi, Internet...) partono da lontano, lontano almeno quanto gli anni cinquanta-sessanta.Tutti conoscono ormai le ambigue parole "postmodernità", "postmoderno" e "postmodernismo", nonostante la refrattarietà del mondo intellettual-accademico italiano ad accoglierle (e non sempre a torto).Ma non tutti sanno che c'è una differenza decisiva fra le prime, che indicano "la sostanza storica e materiale del cambiamento", e l'ultima, che rinvia ai "livelli di coscienza, comprensione e ricostruzione ideologica di chi ha cercato di farsene interprete". Così è per Remo Ceserani, che nel suo ultimo libro "racconta" la "nuova epoca", che si autodefinisce postmoderna, districandosi nella giungla di tutto quello che su di essa è stato detto ancor prima della fortunata diffusione del termine, da quando la nuova sensibilità ha fatto irruzione in America.Tentativo ardito il suo, che si propone di "raccontare" e "storicizzare" la contemporaneità: obiettivi già intrinsecamente postmoderni.
È proprio con fare affabulatorio che Ceserani cerca di rendere la portata del cambiamento, attraverso ricordi e aneddoti legati alla sua infanzia e giovinezza e rinvii agli eventi storico-culturali collettivi, che danno al discorso un tocco nostalgico tipico di molta arte postmoderna, appunto. Si passa così dai lontani ricordi di un'infanzia trascorsa in un borgo padano agricolo-industriale immerso nell'austera atmosfera fascista a quelli dell'America dove si prepara la sconvolgente stagione degli anni sessanta e la battaglia elettorale fra Nixon e Kennedy viene, per la prima volta, combattuta a colpi di immagini televisive.Immagini televisive: la nuova grande merce, immateriale, che caratterizza il sistema produttivo della nuova epoca.
Secondo Ceserani è il "dominio dell'immateriale", accanto alla "forte internazionalizzazione del capitale", a contraddistinguere la postmodernità: "Si pensi solo al fatto, di per sé simbolico (...), che quel che viene prodotto, fra l'altro, nel nuovo stabilimento [della Texas Instrument] eretto in stile postmoderno nella piana di Avezzano è un oggetto piccolissimo e immateriale, tecnologicamente avanzatissimo, strettamente collegato con i sistemi umani della percezione e della rappresentazione, fondamentale nel sistema nuovo della comunicazione: un nuovo potentissimo chip di memoria". Ormai i paesi a capitalismo avanzato si limitano a spostare la materia prima da trasformare da un paese del Terzo Mondo all'altro "e di proprio ci mettono soltanto il disegno, lo 'stile', un'idea, una griffe", e la possibilità di piazzare il prodotto finito su tutti i mercati del globo.
Il passaggio artistico dominante invece è quello che va dal "kitsch" del periodo "high modern*, il periodo fra le due guerre in cui il piccolo borghese incapace di vivere l'esperienza estetica autentica degli "highbrows" si rivolgeva ai suoi surrogati, al "cult" del postmoderno, che è in qualche modo il risultato del rovesciamento dell'operazione precedente: adesso è l'élite artistica che ripiega ironicamente, ma secondo me anche ambiguamente, sui prodotti "bassi", popolari, innalzandoli e trasformandoli in oggetto di culto. L'esempio letterario che Ceserani sceglie per completare l'affresco della postmodernità è il confronto fra due testi "simili": "Libra" (1988) dell'americano Don DeLillo e "L'editore" (1989) di Nanni Balestrini (non mancano tuttavia gli esempi di Calvino, Eco, Tabucchi). Entrambi i romanzi usano il genere storico e quello "poliziesco" (il primo per ricostruire l'omicidio di Kennedy, il secondo per gettare luce sulla misteriosa morte di Feltrinelli), strategie narrative fortemente intertestuali, tecniche di montaggio-smontaggio disorientanti..., ma contrariamente "a quanto sembra pensare DeLillo, per il quale ci sono cose, nel mondo della postmodernità, che sfuggono a qualsiasi investigazione ed esistono verità irraggiungibili, Balestrini continua a credere nell'esistenza di alcune verità fondamentali, di alcune grandi narrazioni ideologiche del mondo e della storia", checché ne pensi Lyotard.
Da ciò emerge che la postmodernità nella sua componente letteraria come in quella teorica non è "un insieme omogeneo e totalizzante" (come vorrebbe il "postmodernismo banale", anche se Ceserani stranamente usa ancora la parola "postmoderno"), ma "pieno di tensioni e di contraddizioni interne, di elementi positivi ed elementi negativi" ("postmodernismo critico"). Ciò tuttavia non impedisce di tracciare una mappa tematica, articolata in tre punti, si può dire, jamesoniani (al teorico americano è dedicato un intero capitolo): frammentazione del soggetto (nella sua realtà corporea e sentimentale), appiattimento della storia (accompagnato da uno "storicismo onnipresente, onnivoro e quasi libidico"), riduzione assoluta della natura a cultura (ovvero a merce raffinata).
Questo, per il "raccontare" sobrio del postmodernista critico Ceserani, sui cui contenuti non è difficile essere d'accordo. Per ciò che concerne invece il tentativo di storicizzare la postmodernità, quindi la sua valutazione storica, bisogna chiederci se il cambiamento avvenuto verso la metà del nostro secolo sia realmente di tipo epocale, paragonabile cioè a quello causato dalla borghesia alla fine del Settecento, oppure se si tratti soltanto di un ulteriore scatto in avanti (come quello della seconda rivoluzione industriale o "elettrica" avvenuta a cavallo fra Ottocento e Novecento) di quel processo capitalista iniziato appunto con la prima rivoluzione industriale.
Ceserani, nonostante si cauteli, creando una griglia di criteri orientativi attraverso i quali attuare obiettivamente l'operazione storiografica, e affermando con Habermas che il progetto illuministico è stato realizzato solo in parte e che non si è affatto esaurito, non esita a paragonare i cambiamenti avvenuti a partire dagli anni cinquanta agli sconvolgimenti storici provocati nel mondo occidentale dall'ascesa di una nuova classe, di un nuovo modo di produzione e di una nuova procedura politica. È vero che siamo passati dal dominio della merce materiale a quello della merce immateriale (con la relativa estetizzazione di tutti i settori della realtà), a una forma di capitalismo che ha conquistato gli ultimi territori vergini della natura e dell'"anima", ma rimaniamo pur sempre all'interno della svolta capitalista, appunto.
Le invarianti sono tutte lì, ha detto Franco Fortini, che pure al postmoderno refrattario non era. Non si vedono nitidamente nella loro forma tradizionale, ma basta spostarsi dai centri del mondo alle sue periferie (anche occidentali) per smetterla di parlare di società
"postindustriale" o "trasparente" (secondo certo postmodernismo banale o apologetico), ma anche per smorzare l'ottimismo del postmodernismo critico o equilibrato. "Il faut être postmoderne", dice giustamente Ceserani, ma non necessariamente postmodernisti.

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