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Qui non riposano - Indro Montanelli - copertina

Descrizione


Questo romanzo fu pubblicato in Svizzera nel 1945, dove l'autore si era rifugiato per sfuggire ai nazifascisti, con il titolo di Drei Kreuze (Tre croci). Ispirandosi liberamente al romanzo di Wilder, "Il ponte di San Luis Rey" Montanelli racconta in prima persona le sorti di tre italiani qualunque trovati misteriosamente assassinati in Val d'Ossola il 17 settembre 1944. Chi li ha uccisi? Perché? A queste domande non è possibile dare una risposta finché il vecchio parroco, in procinto di essere deportato in Germania, consegna all'autore alcuni fogli manoscritti in cui è contenuta un'incredibile verità.
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Dettagli

3
2001
Tascabile
12 giugno 2001
247 p.
9788817125734

Voce della critica

La lettura di questo volume montanelliano, apparso in prima edizione nel 1945, inizialmente in Svizzera con il titolo Drei Krueze. Eine italienische Tragödie, subito dopo in Italia per i tipi del libraio milanese Tarantola, è da consigliare a chiunque voglia comprendere i tortuosi percorsi attraverso i quali l'opinione pubblica italiana si è confrontata, psicologicamente e politicamente, con l'eredità del ventennio fascista.

Oltre a confermare un certo talento letterario, che a Montanelli andrebbe finalmente riconosciuto, il testo ha soprattutto un valore storico. Documenta assai bene non solo l'originale cammino politico-culturale seguito dal giornalista toscano (passato dal fascismo rivoluzionario e anarcoide della giovinezza a una sorta di conservatorismo scettico, politicamente agnostico e moraleggiante, che ne ha contrassegnato la produzione a partire dagli anni quaranta sino alla sua scomparsa nel luglio dello scorso anno), ma anche una certa lettura del fascismo (e di Mussolini), a metà strada tra il qualunquistico e l'aneddotico, tra il nostalgico e il sentimentale, tra il caricaturale e il moralistico, che a partire dall'immediato dopoguerra si è fortemente radicata in settori consistenti della società italiana, proprio grazie, tra l'altro, all'instancabile attività pubblicistica svolta da Montanelli per oltre un cinquantennio.

Qui non riposano si presenta con una struttura narrativa epigrafica: tre testamenti manoscritti conservati da un vecchio parroco e poi affidati al giornalista, che decide di curarne la pubblicazione come omaggio alla memoria dei rispettivi autori, "vittime di folli passioni", la cui uccisione in circostanze misteriose, nell'estate del 1944, nessuno peraltro sa a chi attribuire, se ai fascisti repubblicani oppure ai partigiani.

Né fascista né antifascista, uomo mite e solitario, del tutto estraneo alla politica e con l'unica ambizione di "tirare a campare", è il barone Edoardo Caldura, autore del primo memoriale. La violenza della storia e degli uomini irrompe nella sua quieta e anonima esistenza all'epoca della legislazione razziale, quando gli viene chiesto, in cambio di denaro, di fingersi il padre naturale "ariano" di un ambizioso e giovane gerarca, Rodolfo "Fofi" Nissim, che teme di vedersi rovinata la carriera politica dalle sue origine ebraiche. Il cambio di paternità funziona per qualche anno, sino alla morte di Rodolfo all'inizio del secondo conflitto mondiale. Subito dopo il 25 luglio, a fascismo caduto, voci anonime accusano Caldura di aver approfitto delle leggi razziali per ricattare un ebreo. Fuggito a Milano, nella zona occupata dai tedeschi, da questi ultimi si trova ben presto accusato del contrario, di aver cioè prestato aiuto a un ebreo. Sfruttatore o favoreggiatore? Caldura si appresta a morire senza sapere quale sia la sua colpa e senza sapere che faccia abbiano i suoi carnefici, con l'unico rimpianto di non aver potuto condurre sino alla fine la sua vita da uomo qualunque.

Assai più interessante il secondo testamento, da leggere come una vera e propria autobiografia politica. Dietro il nome di Antonio Bianchi si nasconde infatti lo stesso Montanelli, che racconta il suo apprendistato di giovane fascista rivoluzionario e le delusioni maturate nei confronti di un regime ben presto incamminatosi sulla via del militarismo, del carrierismo, della retorica e del conformismo culturale. Come Caldura, anche Bianchi si presenta, alla fine del suo percorso intellettuale e umano, come un individualista, come un "uomo qualunque", come un "uomo della strada" che vorrebbe solo vedersi riconosciuto il proprio diritto "a non scegliere, a stare alla finestra, a non agire, a essere spettatore". La sua unica colpa - svanita ogni illusione nei confronti del fascismo mussoliniano e più in generale nei confronti della politica - è quella di "aver detto male di Garibaldi", di non credere cioè a nessuna ideologia. Quanto alla mano che lo ucciderà sarà, indifferentemente, nera, rossa, bianca o verde, come è nel destino dei milioni di Antonio Bianchi che hanno come proprio colore distintivo il grigio.

Folco Ferrasco è il nome della terza vittima, personaggio "multiplo, sincero e falso" dietro il quale s'indovina facilmente il profilo di Curzio Malaparte, il cui testamento apocrifo è composto da una breve raccolta delle lettere indirizzate a Ferrasco da alcune delle sue molte donne, lettere dalle quali traspare quella miscela di teatralità ed egocentrismo piccolo-borghese, di provincialismo e opportunismo, di superficialità e carrierismo occhiuto, che secondo l'autore ha contraddistinto l'adesione al regime fascista di molti italiani e della quale proprio un personaggio come Malaparte (da Montanelli mai amato) è stato un perfetto rappresentante.

Qui non riposano è stato spesso presentato, sia dal suo autore sia da alcuni interpreti (da ultimo Marcello Staglieno nella sua biografia Montanelli. Novant'anni controcorrente, Mondadori, 2001), come un ritratto generazionale, come il tentativo - operato "a caldo", a guerra appena conclusa - di salvare la memoria dei giovani cresciuti intellettualmente negli anni del fascismo, che a quest'ultimo avevano comunque aderito, e che all'antifascismo erano quindi giunti dall'interno, operando cioè dentro il regime e le sue istituzioni politico-culturali, e sulla base non di motivazioni ideologiche e dottrinarie, ma per ragioni di costume e di disgusto morale. Secondo Montanelli, lo scopo precipuo del libro, al momento in cui fu scritto, era proprio quello di impedire che l'antifascismo dei fuoriusciti (azionisti, comunisti o cattolici che fossero) mettesse in ombra, o addirittura disconoscesse del tutto, il lungo viaggio verso la libertà compiuto da un'intera generazione che nel fascismo e nelle sue ambizioni rivoluzionarie si era, almeno per un certo periodo, ampiamente riconosciuta, salvo poi drammaticamente disilludersi.

In realtà, la rilettura odierna di questo volume (alla quale andrebbe affiancata quella di un altro celebre phamphet montanelliano, Il buonuomo Mussolini, apparso per la prima volta nel 1947) presenta motivi di interesse molto maggiori. Esso, infatti, contiene in nuce tutti gli ingredienti dell'interpretazione del ventennio mussoliniano che, dal 1945 in poi, Montanelli ha proposto all'opinione pubblica italiana in tutte le forme (saggi storici, racconti, memoriali, ritratti, articoli, interviste) e in modo martellante. Un'interpretazione che può ben dirsi obiettivamente nostalgica (in un senso non politico, ma sentimentale e generazionale), tutta giocata sul filo dei ricordi e della testimonianza, basata più sull'aneddotica che sui documenti storici, sprezzante nei confronti del fascismo e di Mussolini (sovente presentati in una chiave grottesca e caricaturale), ma al tempo stesso indulgente e cristianamente incline al perdono e alla remissione delle colpe, visceralmente anti-antifascista e (per chi ama il termine) "revisionista" anti-litteram, per molti versi impolitica e anti-ideologica, moralistica e al tempo stesso assolutoria, in una parola scettico-qualunquista.

Un'interpretazione emblematica, come accennato all'inizio, delle reticenze, delle nostalgie più o meno palesi e degli accomodamenti attraverso i quali, nell'Italia del dopoguerra, vasti settori della società e della cultura italiane hanno elaborato la propria memoria del ventennio. È tutt'altro che un caso se Montanelli ha avuto, per quel che concerne il giudizio storico-politico sul fascismo e su Mussolini, un influsso superiore a quello di qualunque altro commentatore o storico italiano contemporaneo. Infatti egli è stato, come dimostra la lettura di questo testo, il primo teorico, con quarant'anni d'anticipo su De Felice, della cosiddetta "zona grigia" (presente peraltro, in altro contesto, in Primo Levi), volendo indicare, con questa espressione, quella maggioranza di italiani che nel dopoguerra, pur avendo rifiutato il fascismo politicamente, non ha tuttavia mai abbracciato l'antifascismo come posizione politica e morale. Né fascisti né antifascisti: tali gli italiani ai quali Montanelli ha dato voce e argomenti, al prezzo però di un'interpretazione e di una memoria di quegli anni assolutamente inaccettabili in una chiave rigorosamente storica, che come tale non può certo accontentarsi - anche alla luce dei progressi compiuti nel frattempo dalla storiografia - di vedere presentare il fascismo come una realtà del tutto priva di coordinate ideologico-dottrinarie e Mussolini come un personaggio senza cultura e senza spessore, quasi un fenomeno da baraccone. Ambigua e parziale, la lettura che Montanelli ha proposto della dittatura nei suoi numerosi scritti storico-giornalistici merita di essere vista come il riflesso fedele di quella parte di opinione pubblica italiana, maggioritaria, che dapprima ha ritenuto di dover minimizzare e magari far dimenticare i propri trascorsi fascisti, e successivamente si è limitata a una lettura cronachistica e politicamente banalizzante del regime fascista e dei suoi protagonisti.

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Conosci l'autore

Indro Montanelli

1909, Fucecchio

Indro Montanelli è stato il più grande giornalista italiano del Novecento: inviato speciale del «Corriere della Sera», fondatore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tornato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. È stato anche saggista e commediografo. Ha scritto migliaia di articoli e una cinquantina di libri, tra cui numerosi libri di storia.Indro Montanelli nasce e vive i primi anni dell’infanzia a Fucecchio. Sue padre era professore di filosofia al liceo e la madre cattolica, apparteneva alla borghesia locale. Indro si diploma a Rieti al liceo classico e s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, a Firenze, dove aderisce al fascismo attraverso l’organizzazione...

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