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Dettagli

1997
1 novembre 1996
296 p., ill.
9788886389280

Voce della critica


recensione di Lay, A., L'Indice 1997, n. 7

"Questione di ore" è un titolo felice perché insieme esplicativo e largamente comprensivo delle vicende di uno specifico aspetto del lavoro che ha più di un secolo di vita. Ma la ricerca non riguarda solo una "questione di ore", bensì un intreccio di culture diverse, un'organizzazione di esperienze passate: si tratta dell'appropriazione di un problema, della consapevolezza del diritto a gestirlo come proprio da parte di gruppi sociali che avevano conosciuto, per molto tempo su questo terreno, la sola imposizione. Ma si tratta pure della cultura del tempo, o se si vuole dello sfruttamento del tempo, dei soggetti che hanno nelle loro mani il lavoro di altri. La curatrice sottolinea la complessità del problema storico del tempo di lavoro e del suo impiego e disegna un quadro complesso di continuità e mutamenti politici e sociali nel periodo medio-lungo; sulla scena del lavoro il problema del tempo non è mai isolato dalla molteplicità degli elementi che concorrono di volta in volta a definire la vita dei soggetti che operano nei diversi settori e nelle singole realtà produttive.
Aldo Marchetti affronta il problema del tempo di lavoro riconoscendo subito che esso non è connesso solo alla produzione e all'organizzazione del lavoro, ma anche, e non secondariamente, al "sistema culturale e di valori condiviso da una comunità in un determinato momento". L'arco cronologico di cui il suo saggio si occupa è quello, abbastanza consolidato nella storiografia, delle prime fasi dell'industrializzazione in Italia: 1880-1919. Infatti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta compaiono, accanto alla predominante domanda di salario, anche le prime sporadiche richieste di riduzione di orario; il 1919 segna poi il traguardo delle otto ore.
Del ventennio successivo si occupano le pagine di Giovani Garbarini, attento a ogni piccolo segnale che riveli quanto, nel generale e spesso solo apparente silenzio operaio negli anni del fascismo, il problema del tempo sia presente e oggetto di discussione. Questo saggio mette in luce come sia importante per le organizzazioni operaie e conveniente per gli industriali - per scaricare le forti tensioni del dopoguerra e arginare, giocando d'anticipo, le richieste salariali - assumere l'orario di lavoro come tema centrale su cui si possa raggiungere un accordo. Garbarini analizza come ai due tradizionali attori dello scontro sociale se ne aggiunga un altro rappresentato dallo Stato, in questo caso lo Stato fascista ai suoi esordi, che nella legge del 1923 (otto ore giornaliere, 48 settimanali), per altro non sempre applicata, sembra tendere una mano ai lavoratori; operazione abile, della quale però un noto e non del tutto accorto apologeta del regime dichiara l'origine e le intenzioni: "dare la "sensazione" precisa e leale della tutela delle classi lavoratrici". Si tratta probabilmente di uno dei primi tentativi di organizzare il consenso, del quale la parola "sensazione" è una spia.
Garbarini affronta anche i nuovi aspetti del dibattito sull'orario tra i diversi soggetti sociali in connessione con la crisi del 1929 e con le sue conseguenze, soprattutto sull'occupazione, messe in rilievo dall'autore attraverso un "Prospetto comparativo della disoccupazione in Italia, 1919-1939". Alcune interessanti tavole esplicative offrono poi la chiave di lettura dell'applicazione o della mancata applicazione in Italia dell'orario settimanale di lavoro ridotto e dei tempi di questa contrazione, che dalla crisi e dal dibattito sulle 40 (o 44) ore hanno origine. Ma nelle conclusioni della sua analisi l'autore sottolinea come il regime con i suoi "corporativisti-sindacalisti", nonostante gli sforzi fatti per controllare il tempo dei lavoratori, non sia mai riuscito a governarlo pienamente: nella sostanza il potere di regolazione dell'orario di lavoro rimane agli imprenditori.
I saggi che seguono mantengono la promessa e confermano il proposito che Myriam Bergamaschi ha esposto nel saggio introduttivo: disegnare il cammino che il problema dell'orario di lavoro ha compiuto, creando nuove idee o rielaborando vecchie proposte. Il contributo di Pietro Basso affronta, coerentemente con una delle scelte, quella del percorso cronologico, gli anni del secondo dopoguerra, facendo i conti con la riconversione, la riorganizzazione produttiva, l'applicazione del taylorismo nella sua "copia italica"; all'interno del mutamento irto di contraddizioni, i limiti del tempo di lavoro non appaiono tra le maggiori rivendicazioni: troppo spesso le organizzazioni dei lavoratori cedono a una loro modesta e frammentaria monetizzazione.
Con un approccio di carattere più sociologico, più implicito nel saggio di Cerruti, dichiarato esplicitamente da Chiesi, sono affrontati rispettivamente i problemi del tempo di lavoro "tra fordismo e postfordismo" e il rapporto tra "tempo di lavoro e società". La rigidità e i modelli standard degli orari, travolti da mutamenti rapidi, impongono una diversa organizzazione lavorativa e sociale e infine anche una diversa composizione sessuale della forza lavoro, oscurando i modelli conosciuti e sperimentati dell'orario di lavoro. Sono in sostanza questi i contenuti dell'analisi stimolante di Cerruti, mentre Chiesi legge, in modo molto problematico, il mutamento nelle sue ricadute sulla società, sottolineando la creazione di nuove diseguaglianze (in gerarchie di gruppi sociali e di aree culturali) in rapporto all'uso del tempo.
Concentrati sull'ultimo ventennio e sul rapporto tra tempo di lavoro e "di vita" delle donne in determinate circostanze ambientali sono il saggio di Tempia e quello di Merelli e Ruggerini. Il primo affronta, in un quadro complessivo, la difficile conciliazione dei due tempi in un'indagine che attraversa istituzioni e forme di organizzazione sociale; il secondo considera l'esigenza che si impone negli anni ottanta, di fronte ai mutamenti produttivi e alla continuità di un doppio impegno, di adottare una non irrilevante flessibilità dei tempi della vita quotidiana in un contesto urbano.
Leccardi conclude questo lungo e articolato discorso sul tempo di lavoro con una critica al "paradigma temporale dominante", muovendo dal movimento femminista di trent'anni fa. L'autrice va però oltre la riflessione sul tempo sociale dominante e ritiene necessario un confronto con il passato per ridare visibilità al faticoso percorso che porta all'affermazione, anche nel lavoro, di un'identità femminile a lungo negata.

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