Quello che non ho mai detto. Io, il mio autismo e ciò in cui credo

Essere. Uno stato semplice e profondo, che prescinde dal comunicare. Una condizione di libertà dal travolgente flusso del divenire. Su questo pensiero, illuminato di una spiritualità serena e curiosa, si ferma il racconto di Federico. Un ragazzo “diverso” che ha capito come il “sé” non abbia bisogno dell’altro per definirsi, ma non possa restare isolato se vuole esistere davvero. La nostra presenza, anche silente, ha senso solo se è proiettata verso l’esterno, in un coraggioso slancio che è il desiderio di incontrarsi, prima ancora di capirsi. L’intesa è difficile, con o senza l’uso della parola. Per chi, come Federico, il contatto con il mondo è affidato alla tastiera di un computer, la riflessione che dilata la composizione delle frasi offre il tempo di apprezzare il senso della distanza: un divario che può fare paura, che richiede fatica, che racchiude incertezza, ma che rappresenta l’opportunità di inventare ponti, di creare cose nuove che riempiano il vuoto. L’immaterialità del dialogo via display elettronico – a cui è sottratta anche la nota fisica del suono – si propone, in queste pagine, come il terreno fecondo su cui far nascere sentimenti e idee: i germogli muti, ma potenti, che scaturiscono dalla nostra comune essenza di umanità. Federico non parla, ma è riuscito ad imparare il nostro complicato linguaggio, troppo spesso ingabbiato nella insensibile rigidità delle convenzioni e dell’abitudine. L’ha fatto suo e ha saputo renderlo originale, spontaneo, espressione autentica di un sé incompreso che, nonostante tutto, decide di presentarsi nella forma che più piace all’altra parte. Federico ha voluto osservarsi con gli occhi altrui. Che è il modo migliore per essere sinceri e lasciarsi amare.