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Quando la fantasia ballava il «boogie»
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Quando la fantasia ballava il «boogie» - Goffredo Parise - copertina
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Quando la fantasia ballava il «boogie»

Descrizione


Il "colpo d'occhio", ossia la capacità di racchiudere in un dettaglio la segreta morfologia di un personaggio, è la qualità che più colpisce in questi scritti, in cui Goffredo Parise parla soprattutto degli scrittori e dei libri che per lui hanno contato (con "incursioni ingiustificate" nel mondo dell'arte e della pittura e del cinema). Tra gli altri, lo scrittore si sofferma su Joseph Cornell, Montale, Comisso, Gadda, Maugham, Simenon.
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Dettagli

2005
11 maggio 2005
240 p., Brossura
9788845919732

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Herzog
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La vicentinità!Trovate la pagina del dialogo con Piovene.Capirete che la geografia è poesia.

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Voce della critica

Ci sono due categorie di scrittori: quelli che viaggiano e quelli che non viaggiano. Quelli che viaggiano sono quelli profondamente e definitivamente inquinati fin da piccoli dall'"esotismo", come lo chiama Goffredo Parise, che oggi si usa definire come sentimento dell'altrove. L'esotismo, il diverso, l'altro è per Parise quel mondo che ha letto da ragazzino in Salgari, e poi in Somerset Maugham. E, nonostante i viaggi reali in Oriente, oggetto dei suoi splendidi reportage dalle Cina, dal Vietnam, dal Biafra e dal Giappone, nonché le infinite letture successive, quell'esotismo, la ricerca del diverso e dell'altrove, la vince sempre sulla realtà reale: che è, oggi ancor più che negli anni settanta, quella dell'omologazione.
Questi scrittori, gli scrittori come lui, sono condannati al viaggio, spinti da una molla fortissima che è la passione della curiosità, il peccato dell'Ulisse dantesco. Non basta loro il viaggio con i libri intorno alla propria cameretta, ma al contrario: i libri sono la spinta prima al viaggio, che è anche una verifica, una risposta al tarlo della curiosità, una necessità vitale che, quando non è soddisfatta, lascia dietro di sé inquietudine, e poi inerzia e noia, e la saggezza-rassegnazione dell'età adulta. "Metti la testa a posto, diventa adulto, viaggia autour de ta chambre , pensa a Salgari", gli dicono gli amici negli ultimi anni quando viaggiare è proibito per lui: "Ho un bel dirlo a me stesso, ma da quei prahos , da quel fetido porto, da quella topaia, intanto vanno a Makassar. E com'è Makassar?".
Così chiude la paginetta I miei viaggi veri e immaginari , in quello stile breve, leggero e quasi distratto, nel quale passano le folgoranti improvvise verità delle sue pagine migliori, come quelle dei bellissimi Sillabari . La si legge in Quando la fantasia ballava il "bolgie" , scelta di scritti saggistici di Goffredo Parise fra il 1957 e il 1986, dissepolti con intelligenza fra le pagine degli ormai quasi introvabili "Meridiani" da Sivio Perrella per Adelphi. È il secondo volume della pubblicazione degli scritti di Parise, iniziata con Sillabari un anno fa (ma senza le voci aggiunte dal bravo Perrella nel 1997 per iquadernidiviadelvento ).
"Ho un debole - scrive Parise - per le semplificazioni fulminanti, cosa che assai raramente sento in giro". Le sue sono semplificazioni fulminanti soprattutto sulla presenza fisica degli autori di cui parla, il loro modo di muoversi, la loro voce, le loro manie quotidiane, il loro aspetto, il loro ritmo vitale, che è strettamente legato alla qualità del loro stile. Come nei tanti ritratti dell'amico Comisso, che Parise collega a De Pisis in una sorta di "identità stilistica", pur nei diversi linguaggi delle due arti della parola e della pittura. Questa identità stilistica consiste, secondo Parise, nella sensualità. Ma attenzione, ed ecco la "semplificazione fulminante": non si tratta tanto della "passione dei sensi" quanto di un "sentimento dei sensi", consapevole e intelligente, che li fa così "italiani e musicali e lontani da ogni estetismo", pur nelle loro stravaganze. Per De Pisis, del resto, "sarebbe bastata quella voce nasale e schizzinosa, quel timbro sonoro, timido, superbo e pazzoide per fare di lui un artista a occhi chiusi".
E ancora, vedi la pagina sullo stile di Natalia Ginzburg, che consiste in una descrizione della "rarità" del suo volto e del suo modo di parlare, di cui ha lasciato lo stampo anche nei figli e in alcuni nipoti: "Lo stile di questa rarità è stampato qua e là in quasi tutta la famiglia". Questa rarità fisica e creativa, prosegue (fisica e creativa, cioè fisica e quindi creativa, per chi è capace di seguire fino in fondo la propria indole fisica), è ebraica, e dunque "erratica" (diasporica, da ebreo errante). Ora, "la forza dello stile di Natalia (della sua persona fisica e della sua pagina) sta tutta in questa erraticità". E chi legge capisce, anche se niente è spiegato: è una forza che sembra fragile e leggera ma "è una forza strana e animale di inafferrabile selvatico, con un cervello e un cuore pieno di muscoli fortissimi" tutti protesi verso lo stile, che è la sopravvivenza, "e tutto il resto è noia".
Restituire viva la presenza fisica di un autore e del suo stile fisico-artistico, questa è la scommessa sentita come necessità (tutto il resto è noia) dall'autore di queste pagine, per lo più uscite su quotidiani, e piene di racconti e aneddoti: "Penso a un ideale biografia di Gadda fatta esclusivamente di aneddoti", per restituire la presenza viva del suo humour.
Qualità questa, lo humour, che Gadda condivide con Montale, e che non è umorismo, "non del tutto ironia, non è soltanto spirito", non allegria: ma qualcosa di aleggiante, palpitante, una "parola-folletto", una "bizzarra qualità" dell'animo, che possiedono pochissimi: i veri poeti, "qualche raro animale, qualche raro uccello". E qui siamo in sintonia con Montale stesso e con l'ocapi o zebù, unicum di certe sue poesie - il suo segno stilistico. Viene in mente il duende di Federico Garcìa Lorca, umorismo e vitalità. Montale, dice Parise, è assieme a Gadda "l'uomo con cui (se ne hanno voglia) si ride di più. Perché l'allegria, il riso, sono tra le prime, se non le prime manifestazioni della vitalità, e nella loro manifestazione più alta, spesso proprio della poesia".
Non che Parise non sia un intellettuale, e non che non si lasci a volte coinvolgere in complicate spiegazioni, come per esempio nel caso di un discorso su Piovene in cui si finge un sogno con un incontro fra i due e una complicata discussione intorno al tema di cosa sia la vicentinità, con qualche lampo di semplificazione fulminante, ma in un insieme che, non diciamo non regge, ma quanto meno non fulmina. E analoghe perplessità suscitano certe teorizzazioni un po' complicate e datate su romanzo e ideologia.
Ma Parise, prima che un intellettuale, è uno scrittore che riesce a scuotersi di dosso l'intellettualismo per correre alla sua preda: che è l'evidenza fisica delle persone che ama e della loro arte. A questa evidenza colta al volo corrisponde una assoluta, cristallina chiarezza e semplicità di scrittura, venata di ironia e dunque di allegria anche nella morte, che fa venir subito voglia di scrivere di lui, e anche di scrivere in generale, tanto sembra naturale.
"Ti è mancato - scrive a Fortini in risposta al suo Perché è difficile scrivere chiaro , rimproverandogli una complicazione stilistica che rende per l'appunto quel suo scritto quasi illeggibile, - il sentimento della chiarezza. (...) il sentimento che induce anzi provoca naturalmente la chiarezza è un sentimento di libertà che potremmo chiamare 'universalmente democratico'". Come dire meglio? Un sentimento di libertà, quella libertà stilistica che nella coppia De Pisis - Comisso consiste nel sentimento della sensualità e non nella sensualità pura e semplice - e che è un "sentimento" democratico perché si risolve in uno stile comprensibile a tutti.
Lo scritto più critico è infatti su un libro come L'impero dei segni di Barthes, dove il francese cade, secondo Parise, nella "trappola" dell'analisi (essendo egli com'è noto - in quegli anni - un semiologo e dunque legato "per deformazione professionale" a questo metodi di indagine). Secondo Parise il Giappone non si presta all'analisi, ma soltanto a fulminee intuizioni, a "una serie pressoché infinita di elettroshock", ovvero di satori ("una specie di perdita di coscienza"). Belle sì, dice, alcune pagine del libro di Barthes, per esempio sulla cancelleria giapponese, ma perché volerla analizzare? Questa caparbietà tutta occidentale nell'analisi pone il semiologo nella posizione dell'amante non corrisposto, in un suo "struggimento strutturale", come una sorta di ossessivo amore platonico, un amore stilnovista.
La famiglia che Parise ama, e alla quale nei suoi esiti più felici, come nei Sillabari , appartiene egli stesso, è quella della leggerezza e della leggibilità. Sono queste le qualità che gli hanno fatto amare fin da ragazzo nella vecchia "Medusa" verde di Mondadori un autore (considerato al più un " first class of second rate writer ") come Somerset Maugham: e cioè "un nipotino di Conrad e di Stevenson, a sua volta ziastro di un altro scrittore per altro più stimato: Graham Greene". Di Maugham ama la leggibilità e lo humour, il non fanatismo ideologico, la nobiltà nel dolore da vero omosessuale, il dandismo. Tanto da proporre come fratello di Maugham anche Giovanni Comisso, per una loro somiglianza di vita, di viaggi e di stravaganze. Non parla per altro delle opere di Maugham, bensì di una splendida biografia su di lui, che lo fa conoscere da vicino: dove lo snobismo di Maugham è un'altra delle sue virtù.
Perché, infine, a proposito di Truman Capote, altro fratellastro: "Come non dirla una volta per tutte che la letteratura fu sempre, nei secoli, esercizio di snob e per snob?". Ecco due autori snob (Capote e Maugham) oggi poco letti, osserva Parise "e perciò pronti per essere ripubblicati da Adelphi", che infatti pubblica il loro imitatore Prokosch. Un imitatore che con queste imitazioni ne denuncia una grave debolezza: che è appunto quella di essere facilmente imitabili. E Parise rivive un incontro indimenticabile, a New York nel 1961 con Truman Capote assieme a una ragazza "dal vestitino assai corto di Bloomingdale, scarpe da tennis impolverate di rosso, niente calze, capelli arruffati biondissimi e occhiali, occhiali da vista. Una ragazza piccola di statura ma di proporzioni perfette e si sarebbe detto completamente nuda sotto quella maglietta di filo di Scozia": è Marilyn, la Marilyn di Altre voci, altre stanze .
Quella di Parise è una famiglia allargata all'Europa di Montale e Sciascia, Prokosch e Longanesi, Stravinskij e Simenon, ma anche all'America di Capote e di Altman, e all'Oriente, al Giappone di Tanizaki. È la famiglia di quegli artisti che sanno cogliere il vento della libertà, quando spira, come fu per l'Italia alla fine della seconda guerra al tempo del famoso boogie intitolato In the mood : libertà del corpo e della immaginazione.
Al di sotto, pulsa nitidamente il cuore della sua terra: vedi la splendida lettura di Zanzotto e del suo scavare geologico in paesaggi sempre più locali, e poi vegetali e organici e infine minerali, in una dimensione nient'affatto bucolica (visiva e orizzontale) ma bensì verticale, "da pozzo artesiano". Oppure vedi la pagina leopardiana che apre il libro, una Variazione del 1957, di premonizione della solitudine che lascerà a lui la morte di Comisso, "quando una greve, solitaria malinconia cala alle prime nebbie sul Veneto, e nell'animo fino in fondo; quando alla domenica, non appena i pioppi si saran fatti rossi di foglia e fradici di umidità notturna".
E infine, ecco la presenza, ironica e leggera del se stesso giovane e povero, alle prese con Longanesi e con la scrittura di Il prete bello , con il suo cappotto nero, morbido e sformato, "di quelli che si usano per l'abito da sera": è così il Parise che portano nei loro occhi interni i suoi lettori, anche quelli che non lo hanno incontrato mai.

Laura Barile

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Goffredo Parise

1929, Vicenza

È stato uno scrittore e giornalista italiano. Comincia a scrivere collaborando con giornali come L’Alto Adige, L’Arena, il Corriere della Sera. Nel 1950 appare il suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete, pubblicato dall’amico Neri Pozza ma stroncato dalla critica. Nel 1953 è la volta de La grande vacanza accompagnato questa volta da una lusinghiera recensione di Eugenio Montale sul Corriere della Sera e definito da Carlo Bo nel 1968 “autentica poesia”. È Leo Longanesi ad incoraggiarlo a continuare a scrivere: arriveranno Il prete bello (1954); Il Fidanzamento (1956); Amore e Fervore (1959). La bravura del Parise giornalista emerge da alcuni reportage di viaggio, come Cara Cina (1966), Due o tre cose sul Vietnam (1967) e il libro...

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