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Burt ha otto anni, è rinchiuso in una clinica psichiatrica per aver commesso atti riprovevoli nei confronti di una bambina. Il romanzo è narrato in prima persona dal bambino stesso e, attraverso un sapiente uso della suspense, è tutto incentrato sul progressivo svelarsi dello scabroso episodio e sulla decifrazione delle turbe psichiche che ne segnarono le cause. Gli eventi del quotidiano, le visite specialistiche e la terapia comportamentale sono dunque filtrati attraverso gli occhi di Burt, la sua immaginazione, i suoi ricordi sconnessi e, soprattutto, le sue parole. Non si tratta infatti di un semplice monologo interiore, ma di un reale resoconto che il bambino scrive sui muri della sua stanza. Nonostante le turbe psichiche e la quasi incapacità comunicativa, al bambino è stato riconosciuto un raro talento linguistico e gli è stato permesso di scrivere riflessioni sul muro (quelle che di fatto formano il romanzo) come unica possibilità terapeutica. Lo stile di Buten è dunque lo stile del bambino: limpido, senza sbavature, sintatticamente minimalista ma anche estremamente evocativo. Questo particolare tratto stilistico, tuttavia, incarna sia il pregio del romanzo sia il suo limite più evidente. Se da un lato pare interessante scoprire la varietà e l'inventiva del flusso coscienziale infantile, dall'altro il linguaggio che sorregge tali pensieri, pur nella sopraccitata semplicità, risulta talvolta inverosimile perché concettualmente troppo complesso per le reali capacità introspettive di un bambino. Un limite minore, infine, è quello, mai troppo dibattuto, dell'etica del romanziere. L'autore deriva infatti la storia dalla sua attività di psicologo in una clinica psichiatrica infantile, e l'utilizzo che fa di certe esperienze, specie di quelle più pruriginose, a fini non solo estetici ma anche (e occorre precisarlo) sensazionalistici, non può non destare dubbi sull'autenticità di una scrittura così incalzante e accattivante.
Federico Sabatini
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