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Apolloni non è certo il poeta della porta accanto, quello della lirica ridente, ammiccante, narrativa. Non ci da dentro con versi troppo americanizzati alla Whitman, né monta il toro di una lirica intellettualoide, di intrinseca e deliberata oscurità. Ma è piuttosto un geniale evocatore della cultura fastosa e barocca, del recupero dell’ormai desueto sonetto romanesco. Attirato dal fascino di un’ antica dimensione comunicativa, egli indossa la maschera del “puttaniere arcadico”, una sorta di personaggio scettico, ridanciano e godereccio. Costruisce sonetti che, pur contaminati dall’invincibile seduzione del Belli, diventano esempio di nuova combinazione e di ripresa che sarebbe ingeneroso chiamare imitazione, trattandosi di libera variazione su di una maniera. All’istintivo realismo dell’illustre predecessore, egli contrappone una vitalità visionaria e magica. La sua poesia non mira ad una polemica egualitaria che tenda a dar voce alla plebe romana, ma alla scanzonata e stravagante rievocazione di inimitabili figure mitiche e bibliche, che di fatto rubano la scena ai popolani capitolini. Ne esce un vertiginoso caleidoscopio di immagini che unisce la facilità popolaresca e ridevole dei motivi, all’altisonanza di riferimenti dotti, assemblandoli in una sintassi creativa di eccezionale fermezza. Versi che si pongono in chiave grottesca e folle, seguendo gli estri di una vitalità capace di trapassare nel vigore icastico della polemica religiosa, nell’arringo satirico ed irriverente rivolto contro la Chiesa. Ma la vivezza colorata del suo linguaggio lo rendono più consono a volgere gli argomenti ad uno scherzo sguaiato, che non ad una protesta seria e vibrante. Non c’è sdegno nella sua voce né asprezza, ma solo distaccato scetticismo, camaleontica ironia, con un’ombra di divertimento, che si manifesta nel turpiloquio sboccato degli endecasillabi
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