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Sono due i fatti di cui parla il libro, non collegati fra loro, ma comunque con il medesimo tema, tanto da ritenere plausibile che l’unico racconto in effetti consti di due prose. Soprattutto nella prima, quella dell’annegamento in Venezia del piccolo Zuanin, con la madre che lo stringe fra le braccia, consapevole della sua dipartita che tuttavia rifiuta, mi è venuto in mente un altro evento, analogo, ma non uguale, immortalato dal nostro Alessandro Manzoni nei suoi Promessi sposi, con quella povera Cecilia che la morte si è portata via. Le analogie finiscono qui, ma quel che più conta è che mi è parso che Fiorella Borin, nella sua narrazione, sia riuscita a cogliere la momentanea discrasia fra la certezza del fatto doloroso e l’autodifesa, volta a non accettarlo, al punto da non considerarlo reale. Indubbiamente gli studi dell’autore costituiscono un valido fondamento, ma resta il fatto che riuscire a rendere narrativamente questo contrasto è una prova di grande capacità, la stessa che poi si ritrova nel personaggio della seconda prosa, cioè di quella madre che ormai alla fine della sua esistenza nell’ospizio si aggrappa disperatamente a ciò che le resta di una sua bambina morta moltissimi anni prima nel crollo di un ponte, unitamente ad altri infanti, fatto, quello del crollo, effettivamente avvenuto e che ha costituito il pretesto o meglio lo spunto per questa narrazione breve, ma di notevole bellezza. Se pure è un’aria di tragedia che permea il libro, l’aver saputo porre in evidenza, senza ricorrere a luoghi comuni o ad accentuate enfasi, l’amore materno costituisce l’elemento di maggior pregio, tanto più che l’autore, mantenendo un costante distacco dai suoi personaggi, toglie loro quell’artificiosità propria della scrittura d’invenzione, rendendoli veritieri e perciò maggiormente interessanti. Le putine del Canal Gorzone è un libro senz’altro da leggere, perché è più che meritevole.
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