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I tormenti del giovane Ivan. Parafrasando Goethe e il suo Werther, due secoli dopo ritroviamo immutati i furori, i pudori, i chiaroscuri dell'animo della generazione 2.0, confusa, smarrita, turbata dalla Babele semantica che la avvolge come peplo malefico, dall'eccesso di icone che la contemporaneità impone in modo aggressivo, tese all'omologazione, alla formattazione di specificità e individualità. "Puoi chiamarmi Sonsiray" è un romanzo d'esordio e di formazione in cui Manuel Pitton ha fatto confluire la sua rabbia esistenziale, la faticosa ricerca di un'identità, una dimensione sentimentale e spirituale, sintesi speculare di quel sostrato che si agita nella mente di milioni di ragazzi del III Millennio, il tempo in cui si cerca disperatamente di non perdersi omologandosi, puntando alla ricerca di se stessi e dare così un senso compiuto alla propria esperienza. Doloroso è invece il non protagonismo coatto, l'essere sottratti ex abrupto alla rimodulazione dei destini del mondo, sospinti nell'effimero. Ci impregna un relativismo straniante: viviamo al crepuscolo di valori antichi svuotati senza che altri siano emersi a dare un minimo di pathos alla quotidianità e alla socialità. Nietsche ha ragione: "Non possiamo tornare all'antico; abbiamo bruciato le navi. Resta solo da avere coraggio. E avvenga quel che avvenga". E' la via che si prospetta anche a Ivan, il cui vissuto è segnato da una serie di "tradimenti" e lacerazioni che lo segnano nel profondo. Pur giovanissimo, Pitton padroneggia la sua storia di iniziazione al dolore, l'Universo, la vita fatta di abbandoni senza senso e quindi ancor strazianti, addii immotivati, fughe dalle responsabilità, assenze inspiegabili, diserzioni insospettate e sospeso fra due terre e due culture, europea e mediterranea, cerca la sua identità esistenziale e sentimentale in un confronto continuo, sincero con se stesso che in certi passaggi somiglia a un'autoanalisi dai tratti aspri e impietosi ma mai consolatori. Da leggere.
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