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Psicanalisi, ermeneutica e letteratura - Elio Gioanola - copertina
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1991
1 gennaio 1991
448 p.
9788842508939

Voce della critica


recensione di Bertone, G., L'Indice 1991, n. 7

Una "Premessa quasi teorica" di dieci pagine per un volume di ben più di quattrocento che racchiude un'interpretazione del "grosso" del Novecento (Svevo, Pirandello, Deledda, Tozzi, Gozzano, Boine, Noventa, Montale, Ungaretti, Pavese, Gadda, Sanguineti, Calvino); di alcuni apici quantitativi (letteratura di consumo: De Amicis, Salgari, Invernizio) e qualitativi (Porta, Leopardi e Pascoli) dell'Otto con una risalita sporadica, utilizzabile anche come controprova, nel Sette ("Vittorio Alfieri: la malinconia, il doppio"), in chiave unica di ermeneutica psicanalitica, può parere inadeguatamente striminzita per il lettore, specie se italiano e dunque avvertito della relativa rarità di tale metodologia e di sue assidue applicazioni. Ma Gioanola ha deciso di sciogliere a poco a poco gli interrogativi di chi legge impostando il libro su una prima base teorica stringata, diafana e perentoria, poi recuperata e sviluppata via via nei singoli saggetti, con la tecnica, se si vuole, della "ripresa". Non potrebbe essere che così. Perché - come spiegheremo - le specifiche pratiche vivono e lievitano nella continua riproposizione degli assunti generali che fanno capo a una precisissima idea della vita. Quanto al metodo: si tratta di una diagnostica diretta, clinica, della patologia nevrotico-psicotica, tesa a indurre, tanto dai testi quanto dalla biografia dell'autore, la configurazione psicologica originaria che dell'opera spieghi il carattere fondamentale e le sue tante manifestazioni. Insomma, un uso psicologico della psicanalisi che si distanzia ovviamente dagli studi propriamente linguistico-strutturalisti ("che fanno dell'opera letteraria un prodotto dell'immacolata concezione", Starobinski), ma persino dalle limitrofe vie percorse dagli altri psicanalisti del letterario, come Francesco Orlando il quale salta a piè pari la "psicologia dell'autore" per andare a centrare, invece, i modelli linguistici che rinviano all'inconscio. Per Gioanola no, l'inconscio non è (lacanianamente) un linguaggio, è (freudianamente) pulsione, energia, semmai spinta verso il linguaggio. L'inconscio anzi è, per lui, qualcosa di ancor più radicalmente "altro" e che significativamente lungo l'itinerario critico prenderà i nomi di Dio, di Eros, di Natura o comunque di un'oltranza, l'Altro assoluto; in un'assunzione univoca del primo termine del rapporto, strettissimo e senza soluzioni, tra vita e opere come sofferenza, malattia, nevrosi, follia (e ancora: prigione del vivere, della famiglia, di un ente "padreternale") e del secondo come "scrittura" (con immagine kafkiana: "meraviglioso castello", prigione-rifugio e aspirazione alla salvezza nello stile). La poesia sarà allora mito e 'religio' e la sua esistenza si darà nell'opposizione alle razionalizzazioni, la cultura, le ideologie tutte, la storia. Come si sarà già afferrato, il nome di Freud, sganciato da ogni determinismo, viene innestato nella fenomenologia heideggeriana e affiancato dal Sartre non marxista (con una frase sempre parafrasata, "Se i padri hanno dei progetti, i figli avranno dei destini", ma che potrebbe figurare 'in exergo'); anche qui in una opposizione che ha nomi ben precisi: Croce, Luk cs.
Tanto spessore di rimandi culturali e filosofici, ancor più provocante in quanto s'esprime in una scelta senza sfumature, un taglio netto che divarica i campi una volta per tutte, non rifiuta di piegarsi sull'indagine minuta dei testi, ripercorsi con puntualità perfino didascalica. È il caso, tra i tanti, del "Gelsomino notturno", dove si raggiunge il massimo di analisi minuta e di rinvii teorici, e dove le nevrosi del Pascoli, le sue turbe psichiche di fronte all'eros altrui (gli sposi spiati: "Là sola una casa bisbiglia"), ossia la diagnosi da cartella clinica di 'phobie du mariage', voyeurismo morboso, sono riscattate da un'assunzione su un piano quasi metafisico del rapporto del soggetto con l"'inconsistenza" del mondo e l'essere-per-la-morte. Meno robusta è forse l'argomentazione, lì invero quasi accessoria, che getta, sulla scorta di Fonagy, ponti tra inconscio e significante: non pare che siano le occorrenze del gruppo fonematico liquida È vocale ("la") in sé, a creare la nenia bisbigliata e cullante, ma la loro disseminazione nella misura del novenario.
Diretta conseguenza di quei postulati teorici è poi, qui e altrove, l'indistinzione tra documento privato e testo poetico, nonché, a livello del testo, tra i diversi pronomi che lo agiscono. Ciò è ancor più evidente nel caso di autori ai quali Gioanola ha dedicato interi libri (Svevo, Gadda, Pirandello) e qui solo articoli. Ettore, Italo, Zeno sono allora un "caso" unico diagnosticato come "nevrosi isterica", producendo quali referti la documentazione, dentro e fuori la prosa narrativa, dei rapporti col padre: la scelta letteraria si esplica nella sfida al sistema paterno e l'opera in nient'altro che nello sfruttamento intensivo della "malattia". Idem per Eugenio e Arsenio. Il "tu" della poesia degli "Ossi", cui, magari sotto l'influsso di quell'affettatrice di pronomi che è l'odierna narratologia siamo disposti ad aumentare di un tanto il nostro credito di personaggio, viene assimilato da Gioanola all"'io lirico".
Tutto ciò - che è propriamente, anche se solo potenzialmente, un attentato ai canoni istituzionali del letterario: le "fonti" per esempio non vengono considerate, immagini figure e plot godendo per definizione di una loro perfetta originalità - è voluto e programmato: ad ogni pagina si sottintende un "o così o niente", "o con me o contro di me". In questa sede non resta che riscontrare gli effetti e i risultati: i quali, globalmente, sono notevoli, tra i più penetranti, anche se unilaterali, che la critica oggi possa offrire; soprattutto là dove gli autori (per esempio Boine, "Il mistico senza estasi") offrono già a larghe mani polemiche antistoricistiche e anticrociane da una parte e consegna di sé al religioso, dall'altra. Per cui risulta molto convincente il ritratto di un Boine che non si converte al "poetico", ma usa il poetico e la "malattia" come forma di 'religio'.
Quasi sulla stessa traccia, direi sta il "trittico" pavesiano tenuto sui registri ontologici e heideggeriani e, in sostanza, riducibile alle matrici consuete: "scrittura come condanna e salvezza", melanconia e sofferenza contro padreternalità e ordine. E se troppo incerto è il padre, psicologicamente, c'è lì un padre spirituale, primo della galleria "di uomini sani e attivi": Augusto Monti. (Una 'tabula' cronologica delle uscite dei tanti contributi sarebbe stata forse utile anche per individuare meglio il punto di partenza esistenzialistico e fenomenologico; e rendere più esplicito un percorso tanto polemico - culmine forse dell'antistoricismo di Gioanola è l'interpretazione schopenhaueriana e heideggeriana di Leopardi - e dunque più agevole la possibilità di fare i conti con esso che la raccolta in volume offre e per cui si giustifica). Ma la non falsificabilità che del resto - com'è stato osservato - è tratto generalmente condiviso dalla saggistica letteraria, qui si direbbe intrinseca al metodo.
Nei casi specifici, però, non sempre le analisi risultano così conquistanti. Non a caso nei minori. In De Amicis, per indicarne uno. Intendiamoci, Gioanola ha ragione da vendere a opporsi all'intera neoavanguardia che si esercitò, senza defezioni, sul sadismo dell'onegliese-sabaudo. Senza dubbio la figura di De Amicis è quella masochistica; anche se bisogna intendere il sadismo cantato da Arbasino e compagnia anche come un espediente retorico. Ma l'aver insistito tanto sulla "normalità" di De Amicis, sul conformismo e sulla accettazione servile del mondo come "assenza di malattia" (per Gioanola il massimo del peccato morale e letterario) non consente di comprendere opere di intelligente e non quiescente critica sociale come "Il romanzo di un maestro" e "Sull'Oceano"; e porta a cancellarle, addirittura. Anche per lui De Amicis diviene un esercizio stilistico, acuto e divertente, certo. Poiché, come s'è capito, lontano dalla fumosità di alcuni suoi compagni di scuderia psicanalitica - con cui del resto è poco disposto a convivere per le ragioni metodologiche già spiegate, lo stesso interessato -, fa parte integrante del grimaldello critico di Gioanola uno stile limpido e persino brillante, agile nei ribaltamenti sintattici e concettuali (il "pathos della distanza" riscontrato da Cases in Calvino diventa "la distanza dal pathos" cioè il tentativo di allontanamento dei fantasmi inconsci sotto la rete della cibernetica) che va al di là dell'efficacia e validità didascalica, per designare anche un'altra dimensione compresente nel libro, che lo fa più ricco: nei tanti ritratti critici scanditi da un'univoca e sofferta concezione della vita, emergono i capitoli dell'autobiografia ideale di un autore (n‚ analista, n‚ analizzato, è lui a dircelo) che nella critica ha trovato la propria "scrittura" e dei testi e dei personaggi letterari ha fatto il suo romanzo del Novecento.

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