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Chi è Madame Bovary? La trasposizione letteraria di un modello reale o l'invenzione di un personaggio nuovo che fa tutt'uno con un'etica radicale della scrittura? Fin dalla sua pubblicazione nella "Revue de Paris" (1° ottobre - 15 dicembre 1856), il più celebre romanzo di Flaubert si è trovato esposto, insieme alla sua sfortunata eroina, ai venti di questo duplice interrogativo, al punto da diventare un caso di coscienza per moltissime generazioni di lettori. I contemporanei rimasero per lo più colpiti dalla verità di un testo assolutamente innovativo, che aveva saputo analizzare i costumi di un'intera provincia, la Normandia della prima metà dell'Ottocento, riflessi nell'"insignificanza" di una donna chiamata Emma. Ad alcuni riuscì persino difficile credere che quella storia così orribilmente vera fosse solo "cosa mentale". Lo scrisse per esempio a Gustave un'affezionata lettrice della "Revue", Marie-Sophie Leroyer de Chantepie, in una lettera del 18 dicembre 1856, cioè tre giorni dopo la fine della pubblicazione. Il suo elogio a caldo di un'opera destinata di lì a poco a subire le conseguenze della propria portata scandalosa in un processo che avrebbe visto autore e romanzo prontamente assolti (gennaio 1857) traduceva tutta l'ambiguità della posizione flaubertiana, e chiamava in causa due tipi di realismo: da un lato il realismo inteso come facoltà mimetica, come imitazione della natura (Aristotele), dall'altro il realismo sinonimo di sovversione, rottura, apertura al brutto e al male dell'esistenza.
Flaubert, romanziere realista, se non addirittura prenaturalista, secondo l'etichetta affibbiatagli dalla storia letteraria da Lanson a Lagarde e Michard, ha sempre negato di appartenere al clan dei realisti, più o meno militanti. Quando rispondendo al notaio Émile Cailteaux, che aveva incensato la Bovary per la sua veridicità, Gustave definisce Emma una pura finzione e sottolinea che il borgo di Yonville non è mai esistito (lettera del 4 giugno 1857), il suo proposito è proprio quello di sconfessare un certo modo di intendere il realismo come rapporto di "somiglianza". È questo il senso della notissima dichiarazione contenuta nella lettera del 30 ottobre 1856 a Edma Roger des Genettes ("Mi credono invaghito del reale, mentre lo detesto. È in odio al realismo che ho intrapreso questo romanzo"); e non è per nulla scontato che sia stato il processo a suscitare tanto vigore negativo. Semmai, Flaubert ha sempre rivendicato per sé e per il suo dirompente romanzo un altro genere di realismo, fondato su un'arte della trasfigurazione immaginaria. Maupassant coglierà mirabilmente tale aspetto quando nella prefazione a Pierre et Jean (1888) paragonerà gli scrittori realisti di talento a degli "illusionisti", a dei costruttori di una doxa e di una retorica della verosimiglianza che nulla ha a che spartire con una servile riproduzione, non importa se parziale o integrale, del reale.
Se il cuore dell'illusionismo flaubertiano è l'impersonalità, cioè lo stile o, come si direbbe oggi, la poetica, si capisce allora perché molti scrittori (da Proust a Nabokov) e tanti critici (da Barthes a Derrida) hanno voluto far giustizia del Flaubert studioso di fonti, del Flaubert balzachiano tanto caro all'Accademia. Che Gustave abbia consultato il Traité pratique du pied-bot (1839) del dottor Vincent Duval in vista dell'operazione chirurgica al povero Hippolyte messa in scena nella seconda parte di Madame Bovary è in fondo cosa che rientra nel solco di un realismo documentario ormai metabolizzato (Balzac), di cui la critica genetica ha peraltro, negli ultimi decenni, precisato i contorni. Quel che invece sposta in avanti i termini del problema e rende Flaubert, da un certo punto in poi, figura tutelare della modernità, è proprio la questione dello stile. Per Gustave, infatti, lo stile è l'unico bastione contro ciò che lui chiama "lyrisme" (lettera a Louise Colet, 16 gennaio 1852). Pulsione lirica tanto temuta quanto ampiamente testimoniata da testi "eccessivi" come per esempio Passion et vertu (1837), Les Mémoires d'un fou (1838), Smarh (1839), Novembre (1842), testi dove l'autore non ha mai smesso di "scriversi" (lettera a Mlle Leroyer de Chantepie, 18 marzo 1857) e confessarsi. Ma opporre seccamente stile e slancio lirico è un'operazione che corre il rischio di schematizzare oltre misura un'estetica che per molti versi risulta irriducibile a qualsiasi schematizzazione. Sarà forse un caso, ma quel "Madame Bovary, c'est moi" mai proferito da Flaubert abita indisturbato il discorso critico sulla Bovary da oltre un secolo, correndo, attraverso Thibaudet e Dumesnil, da René Descharmes fino a René Girard. Il nesso Gustave-Emma non ha dunque mai smesso di "depistare" la ricezione dell'opera.
Tale nesso torna oggi alla ribalta grazie alla pubblicazione, a cura di Rosita Copioli, della prima Madame Bovary, inedita in Italia. Questa nuova versione del capolavoro flaubertiano è il frutto di una "ricostruzione" operata da due filologi, Jean Pommier e Gabrielle Leleu (Madame Bovary. Nouvelle version précédée des scenario inédits, Librairie José Corti, 1949) sulle primissime stesure del manoscritto originario, integrate da lunghi segmenti appartenenti a versioni più recenti, compresa quella definitiva. Tale ricostruzione, scrive la curatrice, riporta il lettore "come in una fiction di alta filologia, allo stato germogliante dell'immaginazione di Flaubert". Al pari di una cruenta battaglia, la lunga redazione della Bovary, cominciata a Croisset il 19 settembre 1851 e terminata il 30 aprile 1856, lascia infatti sul campo innumerevoli "vittime" promesse però a una grande notorietà. Vittime sulle quali, in particolare, si sarebbe esercitata, per non dire formata, la critica genetica moderna. Si pensi per esempio agli abbozzi e frammenti inediti raccolti nell'ormai lontano 1936 dalla stessa Leleu, o agli schemi e trame pubblicati nel 1995 da Yvan Leclerc.
Benché del tutto congetturale, questa nuova versione della Bovary, tradotta letteralmente per non alterare la complessità della prosa flaubertiana, ha il grande merito di scartare la già estesa tela di canovacci e varianti, di pertinenza quasi esclusiva degli specialisti, e di ricomporre il testo nella forma altamente fruibile di un racconto ininterrotto. Si obietterà che i manoscritti non sono l'opera, eppure il risultato di questa "sintesi dell'eterogeneo" è sorprendente. Emerge, per esempio, uno Charles molto diverso, non più antieroe degradato ma antieroe buono, personaggio degno di pietà, dal temperamento femminile, "l'unico" che prova, sottolinea Rosita Copioli, "la passione assoluta e pura del cuore". Quanto alla storia di Emma, ridotta all'osso nella Bovary definitiva, essa abbonda nella prima Bovary di sviluppi assai rivelatori sull'infanzia e sull'educazione dell'eroina. In definitiva, il lettore scopre un romanzo nuovo, esuberante, lirico, non esente certo da incongruenze (nomi, date e capitoli che non tornano), ma suscettibile di dare un'idea della Bovary anteriore alle amputazioni dovute all'autore, all'amico Bouilhet o alla redazione della "Revue de Paris".
Il nesso Gustave-Emma ne esce senza dubbio rafforzato. Un esempio? L'episodio del ballo alla Vaubyessard. Dopo la festa, Emma non si addormenta "affatto" e aspetta il giorno. L'alba che la coglie intenta a guardare "il castello con le imposte chiuse, cercando di indovinare quali potessero essere per caso le camere di tutti coloro che aveva notato la sera prima", non cede subito il passo all'affollata colazione prima della partenza per Tostes; quest'alba così decisiva nella sua esistenza si prolunga invece in una scena che la vede procedere a caso nel parco del castello e via via incontrare oggetti (un lampione della festa che le rotola tra i piedi), persone (un valletto vestito di rosso che spazzola poltrone in lontananza, poi una contadina che saluta) e luoghi (un folto boschetto) che propiziano una pausa di esplorazione visionaria del reale e di se stessa. Flaubert racconta di un padiglione "incantato" da dove lei guarda verso l'esterno: le quattro losanghe di vetri colorati di una delle due finestre danno libero corso a un cromatismo sintomatico, scrive Rosita Copioli, di una "riflessione che in Emma è autoriflessione".
Perché allora censurare una pagina così riuscita, che avrebbe senz'altro esasperato Duranty? Perché è una pagina colpevole di assecondare "la ferocia di una Fantasia indomabile" (lettera a Louise Colet, 3 aprile 1852). Non solo. Perché è una pagina nata dalla penna di un altro Gustave, di un Gustave teso a raccontare il reale nella sua incontenibile liricità. Francesco Spandri
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