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Dettagli

1985
1 gennaio 1985
XXI-124 p.
9788821161872

Voce della critica

FONTANE, THEODOR, Il signore di Stechlin, Garzanti, 1985

FONTANE, THEODOR, I Poggenpuhl, Marietti, 1986
(recensione pubblicata per l'edizione del 1986)
recensione di Forte, L., L'Indice 1986, n. 6

"Alla fine muore un vecchio e due giovani si sposano: questo in pratica tutto ciò che accade in cinquecento pagine": così riassume Theodor Fontane il suo tardo romanzo "Il signore di Stechlin*, uscito a puntate sulla rivista "Uber Land und Meer" verso la fine del 1897, un anno prima della sua morte. È una pubblicità piuttosto insolita, anomala. Ce n'è abbastanza per scoraggiare editori e lettori che magari si buttano sul medioevo di Walter Scott o sui romanzi storici di Willibald Alexis (passioni, fra parentesi, dello stesso Fontane). Ma sotto sotto, oltre ad una buona dose di civetteria e di giusto orgoglio, serpeggia l'astuzia di chi sa abilmente stimolare la curiosità. Non solo ai berlinesi, che non si lasciavano scappare una sola novità del grande vegliardo, ma anche a noi vien spontaneo pensare: tante pagine su un filo, su una traccia così esili devono pur celare un miracolo di stile, un'inventività di scrittura. E poi Thomas Mann, suo instancabile ammiratore e debitore, ci ha messo sulla strada giusta: ha riconosciuto l'incantesimo di questa prosa così luminosa, l'estasi immediata che essa genera, quella sua forma interiore assai vicina allo spirito della poesia.
Un breve passo indietro e il discorso trova un'altra conferma: nel 1896 esce il romanzo "I Poggenpuhl", breve cronaca di una famiglia di piccola nobiltà che, dopo la morte del padre, l'eroico maggiore Alfred caduto nella guerra franco-prussiana del '70, vive in ristrettezze economiche. Inutile farsi illusioni sull'intreccio: l'autore ci avverte senza mezzi termini che questo libro non è un romanzo e non ha alcun contenuto. Certo i fatti sono pochi, la trama è scarna: un breve incontro, un rientro in famiglia del figlio Leo per festeggiare il compleanno di mamma Poggenpuhl. Ci sono anche le sue tre sorelle, mentre dalla Slesia giunge il vecchio zio Eberhard, un simpatico e bonario generale a riposo.
L'occasione è buona per andare a teatro con i nipoti; ne approfitta anche Fontane per mettere in scena una di quelle sue indispensabili figurine minori: il signor von Klessentin, vecchio compagno d'accademia militare di Leo. Con lui la tradizione s'incrina, i vecchi valori si dissanguano: da giovane Junker è diventato attore. Così le sicurezze del vecchio mondo aristocratico prussiano si sfaldano in ruoli, la realtà del teatro e della finzione ammicca ai germi disgregatori del mondo moderno. Fontane dissimula questi profondi mutamenti in amabili conversari, in cui la vita, protetta, sembra prolungare la propria lucida agonia. Lo dirà a proposito dello "Stechlin*, ma vale mirabilmente anche qui: "Tutto è conversazione - sono parole dell'autore - , dialogo in cui i caratteri si palesano, e con essi e per essi la Storia". Si veda il malinconico colloquio di Eberhard con la cognata, improntato comunque ad un'inesauribile gioia di vivere, anche quando si debba riconoscere la falsità e il gioco illusorio del mondo moderno: "Tutto ha per così dire una doppia faccia - egli confessa - (...) e in fondo ognuno è un attore". La tradizione è così svuotata dall'interno: sopravvive nei ritratti degli avi appesi sopra il sofà, nella patina della memoria, nel contegno intransigente e un po' ridicolo della figlia Therese legata visceralmente al vecchio buon nome dei nobili Poggenpuhl, a codici e norme depauperati di ogni concretezza.
Il vecchio Fontane resta un maestro del trapasso, in uno spazio attraversato dai bagliori di un'epoca al tramonto. Egli afferma con affetto e commozione i profondi travagli e le trasformazioni dell'ultimo Ottocento soffermandosi su singoli, esili spunti, su anime sconfitte (qui Leo, scapestrato sognatore, o il giovane Klessentin), su ragguagli indelebili della memoria. E su tutto, anche su l'epoca guglielmina che avanza disastrosamente, stende un velo di ironica disillusione. Critico della tradizione e del militarismo prussiani, Fontane ne sottolinea il vuoto e la spocchiosa inanità; sommesso fabulatore di anime e destini, egli lascia che tutto sgorghi dalla polifonia dei personaggi, dall'ordito delle voci, da un cicaleccio che tradisce la vocazione alla causerie e le lontane origini francesi. Il romanzo ad intreccio (di cui il dottor Pusch nello "Stechlin* abbozza una sorta di parodia), con i suoi nodi e i relativi scioglimenti, i debordanti conflitti sentimentali si è totalmente depurato: l'ultimo Fontane è melodia pura, incastro di destini la cui vocalità sta per spegnersi, e la cui esuberanza s'acquieta nel ritmo onnicomprensivo del tempo. Così le vicende anche nel "Signore di Stechlin* si polverizzano nel brusio delle conversazioni, vuoi in una vecchia residenza nella brandeburghese contea di Ruppin dove vive l'anziano maggiore Dubslav von Stechlin (da quelle parti era nato il nostro autore nel lontano 1819), vuoi in una casa nobiliare a Berlino, dove alloggia la famiglia del vecchio conte Barby. Il vecchio causeur costruisce attorno a quella trama, che aveva racchiuso in una breve frase, un lento e raffinato gioco di contrapposizioni, di idee totalmente risolte in spirito e carne, cioè in un nugolo di personaggi, di tradizione e modernità, di mondo e provincia.
Se è vero che Dubslav von Stechlin, come afferma non senza compiacimento, non è mai andato oltre la Baviera, limitandosi quasi sempre a viaggiare fra Berlino e Stechlin, è anche vero che in questo tratto di marca si è giocata una partita, come sottolinea Giuseppe Bevilacqua nella sua densa introduzione, "che ha determinato il destino della Prussia e quindi della Germania". Da queste parti infatti, a Rheinsberg, ha soggiornato a lungo uno degli artefici della patria prussiana, Federico II, che Fontane ricorda non senza ammirazione per quel progetto di una classe nobiliare (lo Junkertum) imprenditoriale e laica, conservatrice ma anche artefice dello stato moderno, che in Germania non riuscì ad affermarsi. Dubslav è ancora immerso nel sogno del grande Brandeburgo, l'asse Berlino-Stechlin, destinato ora, caso mai, a rinverdire, non perché lungo di esso corra un paese moderno, civile, alieno da cinismi, affezionato alle prische qualità umane, ma solo in quanto il figlio Woldemar sposa la contessina Barby, Armgard, e con essa si ritira nelle vecchie proprietà dopo aver abbandonato la carriera militare. Ma intanto il futuro si fa più oscuro ed incerto, il sogno di Dubslav, quel conservatorismo umanitario, legato alle vecchie virtù, rispettoso di ogni umana coscienza, onesto e fedele, scompare con il vecchio signore, dopo aver attraversato tutto il romanzo.
I grandi temi di Fontane - la società prussiana in trasformazione, il matrimonio, la decadenza degli Junker - non s'impongono qui con ideologica virulenza, ma sembrano scivolar via con pacata dolcezza e sottile ironia. Se nei "Poggenpuhl" gli esterni sono marginali e il paesaggio (quello slesiano nella proprietà dello zio Eberhard) è come ritagliato in un breve scorcio, tanto da offrire lo spunto per un'interpretazione del romanzo in termini di canovaccio teatrale (che splendida commedia!), nello Stechlin la marca brandeburghese s'impone con intensità simbolica. Questo punto lontano della provincia resta un luogo di radicamento in cui la brezza della patria spira con cattivante dolcezza. Mai Fontane aveva fatto sentire con tanta emozione come la provincia del cuore e delle tradizioni sia strettamente collegata al mondo: lo riafferma quale simbolo della natura il lago di Stechlin e la sua leggenda che vuole che esso si risvegli e sollevi getti d'acqua quando altrove, magari a Giava o in Islanda, a distanza di migliaia di chilometri, la terra comincia a rintronare. Come il suo lago, anche il romanzo ha qui cosmiche relazioni: da Dubslav alla marca a Berlino, su fino alla Germania e all'Europa (la famiglia Barby con cui Woldemar s'imparenta ha soggiornato a lungo, come lo stesso Fontane, in Inghilterra). I deliziosi angoli di Ruppin, a cui s'accosta il monastero di Wutz, dove badessa è la zia di Woldemar, Adelheid, un'acida vecchia affetta da inestirpabili pregiudizi, si traspongono nella memoria come luoghi cari allo stesso lettore, zone incontaminate d'una patria della memoria, e il romanzo deve non da ultimo la sua grandezza ha fatto che tale provincia e il larico sentimento umano si fondono lentamente in una dimensione di cosmica partecipazione alla vita del mondo. In tale dimensione lo "Stechlin* è realmente opera politica: scruta le crepe della realtà e sente come l'andamento del mondo prepari sommovimenti destinati a far precipitare anche le più profonde e tenere certezze.
Ma tralasceremmo tutta la sua enorme vitalità, se dimenticassimo di ricordare, come suggerisce Bevilacqua, che questa polifonica creazione contiene in sé tanti, innumerevoli romanzi: uno per ogni personaggio. Basti enumerare la sorella di Armgard, la bella e intelligente contessa Melusine Barby, di cui perfino il vecchio Dubslav sembra innamorarsi: una donna cresciuta nell'Inghilterra vittoriana, ricca di esprit e di brio, ambigua e seducente, immagine di una vitalità che s'annuncia con i tempi nuovi e di un'inquietudine che accenna al logorio moderno. E di fronte a lei, il pastore Lorenzen. Anch'egli proiettato su un futuro precario, ma aperto, pronto a cogliere i sintomi del mutamento, desideroso di abbracciare ideali difficili e impervi, lontano da ogni grettezza e calcolo, animato da un'interna libertà che lo associa alla bella Melusine.
Basterebbero questi due ritratti impastati di sfumature, di finezze intellettuali, di allusioni, di teneri silenzi per decidere la fortuna di un romanzo: attori e personaggi che si vorrebbe pedinare per un tempo infinito, voci che affollano senza posa lo spazio del lettore. Ma al centro di questo ritratto di famiglia sta il nobile Dubslav, da cui muove e a cui ritorna più ricco ogni dettaglio della vita della marca. Nel suo malconcio castello egli riassetta una tradizione, che sonnecchia indisturbata come la polvere, senza dogmatismi e sussiego, ma piuttosto con ciarliera bonomia, riservato ed ironico, disposto a mettere "un punto interrogativo dopo ogni cosa". È un brandeburghese ideale, un conservatore che possedeva, come dirà Lorenzen nella sua orazione funebre, "la mansuetudine, la misericordia e la purezza di cuore".
Non è stato difficile scorgere da sempre nella figura del vecchio Dubslav la fisionomia intellettuale dell'anziano Fontane: un riflesso in cui si fondono saggezza e sovrana, distaccata superiorità sulle cose del mondo. E così, questo grande romanzo si risolve da ultimo in un affettuoso testamento, in un presentimento di morte, il cui dolore si affievolisce sotto l'incalzare tenero e dissipato delle innumerevoli voci della vita. Fontane lo rivide, ne corresse le bozze e scomparve un mese prima che uscisse il volume: la morte attese paziente che la vita terminasse d'intrecciare le mille voci della speranza e dell'attesa.

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Theodor Fontane

1819, Neuruppin

Theodor Fontane è stato uno scrittore tedesco. Discendente da una famiglia di ugonotti francesi emigrati in Prussia, si dedicò al giornalismo a Berlino e in Inghilterra, dove fu nel 1852 e dal 1855 al 1859. A questo periodo risalgono numerose Poesie (Gedichte, 1851) e Ballate (Balladen, 1861), mentre solo a quasi sessant’anni comincia a farsi luce la sua vocazione di narratore. Dopo alcuni romanzi a sfondo storico (Prima della tempesta, Vor dem Sturm, 1878; Schach von Wuthenow, 1880), pubblicò nel 1882 L’adultera, storia di un matrimonio sbagliato, sullo sfondo della società berlinese del tempo. Fra i romanzi successivi ricordiamo Le complicazioni della vita (Irrungen Wirrungen, 1887), Stine (1890) e La signora Jenny Treibel (Frau Jenny Treibel, 1892)....

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