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Un poeta del golfo. Versi e prose - Giovanni Giudici - copertina
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1995
1 gennaio 1995
240 p., ill.
9788830412538

Voce della critica


recensione di D'Elia, G., L'Indice 1995, n. 5

Il ritratto che esce da questa antologia di versi e prose di Giovanni Giudici, "Un poeta del Golfo", è quello di un autore che ha coscienza della radicalità dello sguardo poetico, e della sua sostanziale unità. Per questo, si passa dalle poesie ai racconti, dalle prose critiche e d'occasione alle versioni da altri poeti (ancora una volta, dopo anni, appare insuperata la traduzione in rima dell'"Onegin* di Puskin), sorpresi di ritrovare ovunque la stessa impronta, sia pure stampata in diversi generi, la stessa fisionomia. E così si leggono anche le molte vere fotografie del poeta negli anni, ironico controcanto narcisistico.
Radicalità e unità, di fronte alle quali ci si confessa mancanti, in debito, in affanno, calati come si è in mezzo alla vita di tutti. Ed ecco il tema della poesia di Giudici: l'esame della propria anima nativa, ligure, poi metropolitana, buttata nell'ingranaggio dove domina la servitù e la paura della vita amministrata. Il legame col Golfo della Spezia e con i luoghi della nascita e del ritorno è un sottile vivaio di fili familiari e popolari, di presenze parentali e di amici scrittori, tenuto in posto da una continua autocoscienza della caducità cristiana e della mancanza. Poeta della colpa, sì, come e dopo Saba, con un proprio canzoniere ormai memorabile nell'abbassamento autobiografico e cronachistico, nelle forme metriche di una tradizione rinnovata dall'ironia del contrasto e del falsetto, Giudici ci conduce dalle marce basse e verticali delle liriche all'espressionismo parlato dei racconti, in cui si saggia il discorso libero indiretto joyciano sulle proiezioni immaginarie e turistico-kafkiane-gaddiane di "Frau Doktor", immettendoci poi nelle marce alte e da crociera della sua prosa critica.
E si tratta di riflessioni sul fare poetico di rara forza e concretezza. La gestione ironica, come la chiama Giudici; è un atteggiamento empirico dove non conta l'intenzione ma il risultato, un affidarsi del progetto al caso. La storicità della lingua vi è implicata, così che la storia e il testo si parlano attraverso un autore che "regredisce" a uomo comune, negando ogni preteso privilegio della lirica. Un'altra chiave di Giudici è l'attraversamento della vicenda ideologica, subordinando alla cultura la poesia, di cui viene difesa la prassi d'incontro sensibile, avanzando una corrispondenza con la politica. Discorso del bene civile e fare civile, di cui si certifica un legame. "Severo di un'Idea", come nell'inedito per Silvio Guarnieri.
E la poesia è questa tensione politica e formale, mai disgiunta, che parla nella lettera postuma a Ernesto Balducci, uno dei testi sparsi più intensi di questa raccolta "E infine voglio ricordarti di quando parlavi e scrivevi del mondo della penuria che presenta oggi al mondo dell'opulenza il conto dell'ingiustizia secolare".

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Giovanni Giudici

(Portovenere, La Spezia, 1924 - La Spezia 2011) poeta italiano. Ha esordito nel 1953 con Fiorì d’improvviso, cui è seguito L’educazione cattolica (1963). Estraneo alla poetica ermetica, fin dalle prime opere si è riallacciato alla tradizione crepuscolare e, in parte, alla linea dei poeti liguri, con particolare riferimento a Montale. Dopo le raccolte d’esordio, la sua stagione matura si è aperta con La vita in versi (1965), che contiene le poesie scritte negli anni 1957-65, e Autobiologia (1969, premio Viareggio), nelle quali l’io cantato si fa sociale, protagonista di una biografia autoironica, raccontata con tono volutamente medio, senza eccessi né accelerazioni, giocato tra un ritmo narrativo quasi prosaico e improvvisi spunti lirici....

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