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1986
26 settembre 1986
264 p.
9788877462442

Voce della critica


recensione di Colletta, C., L'Indice 1987, n. 5

Di nuovo Rimbaud, si dirà, di nuovo il suo volto d'angelo, la sua vita canaglia, le sue poesie sublimi. Ma a certi autori si torna come per coazione e di anno in anno prefazioni, commenti, traduzioni, ricerche piattamente accademiche o acutamente filologiche s'accumulano negli scaffali dei suoi fedeli.
Guanda ci propone questa volta, nella collana "Poeti della Fenice", la raccolta completa dei suoi versi da "Les étrennes des orphelins", alle ultime rime incluse in "Une Saison en Enfer". Come la BUR, come gli Oscar, anche Guanda segue l'abitudine, invalsa di recente in Italia, di pubblicare in due diversi tomi le opere di Rimbaud, come se fosse veramente possibile distinguere in "poesia" e "prosa" quanto della sua creatività geniale ci resta e come se i poèmes en prose delle "Illuminations" fossero veramente prose. Questa nuova raccolta ripropone così, con testo a fronte, le sole poesie in versi di Rimbaud nell'ordine che circa dieci anni fa Marcel Ruff ritenne più utile alla loro lettura.
I 64 componimenti della folgorante carriera letteraria di Rimbaud vengono qui suddivisi cronologicamente in 6 gruppi. I. Versi di collegio: la produzione dell'inverno 1869-70 in cui il collegiale quindicenne mostra che, oltre Hugo e Banville, anche Baudelaire, e non certo per merito del suo liceo, fa parte del suo personale bagaglio di letture. Il. Primavera 1870: è il periodo di poesie come "Sensation*, quelle che esprimono tutta l'esaltazione primaverile del precoce adolescente; ma vi è inclusa anche la lunga ed enfatica"Soleil et chair" con i primi accenni di rivolta contro il cristianesimo. III. Estate 1870: include tutte le poesie ispirate alla guerra franco-prussiana e le prime espressioni di smarrimento e rivolta; rivolta contro i responsabili della guerra, contro il Male in genere, contro Dio e gli onori che gli vengono resi, contro le donne. Per la maggior parte si tratta di sonetti regolari, salvo il rifiuto baudelairiano della "quadruplice rima". IV. Autunno 1870: le estrose poesie del periodo delle fughe a piedi dall'odiata Charleville, con quella sete di natura che diverrà in seguito una delle ossessioni dominanti. V. 1871: è il periodo dell'entusiasmo scatenato, del furore e della disperazione dei combattimenti: a Parigi trionfa e crolla nel sangue la Comune. Nei versi è così l'esplosione dell'incredibile vocabolario rimbaldiano con tutte le sue violenze espressive: è come "un fuoco d'artificio in cui lo sfavillio, i colori e le immagini si organizzano in quella incoerenza armonica ammirata da Valéry". Quasi per contrasto, invece, la versificazione in generale e la metrica in particolare restano fedeli al rigore parnassiano. VI. 1872: Rimbaud scrive alcuni capolavori come "Larme", "Mémoire", "L'éternité", ma è ben difficile vedere nel gruppo qui riunito un comune intento creativo: forse soltanto un senso di profonda tristezza, di disgusto per l'esistenza, di nostalgia per una qualche promessa originaria. Nei versi di questo periodo possono comunque certamente leggersi le premesse di una "poesia nuova" che vada oltre il Romanticismo e il Parnasse, una poesia già matura per le "non so quali radiazioni inedite" (Valéry) di "Une Saison en Enfer" e delle "Illuminations".
Se tali sei grandi suddivisioni possono legittimamente sostituire l'ordine tradizionale di presentazione dei testi, la pretesa di ordinare cronologicamente le singole poesie al loro interno è molto probabilmente infondata e si basa soltanto sulla poco attendibile analisi grafologica dei manoscritti fatta più di quarant'anni fa da B. de Lacoste e mai ancora ripresa in esame. Quanto al commento di Marcel A. Ruffi che l'editore ha voluto tradurre e ripresentare senza alcun aggiornamento dall'epoca di pubblicazione (Nizet, Paris, 1978), esso è un corredo di varianti e di note precise e puntuali che, nell'impossibilità sovente di essere chiarificatrici sui modi e sui significati dello straordinario e complesso universo poetico rimbaldiano, lascia un po' delusi per la completa mancanza di analisi degli aspetti più propriamente formali delle ultime poesie e per un forse eccessivo pudore interpretativo.
Se il Rimbaud edito nel '64 da Feltrinelli (lo spesso volumetto bianco e blu delle "Opere complete" a cura di Ivos Margoni che molti ricordano tra le mani dell'angelo rivoluzionario del "Teorema" di Pasolini) è stato ed è ancora per molti il Rimbaud italiano per eccellenza o almeno il nostro Rimbaud sessantottino, questo di Guanda non è certo il Rimbaud degli anni ottanta. Il commento di Margoni seppe allora leggere nei versi del poeta francese qualcosa di vero e di immediatamente "contemporaneo" per i lettori di quegli anni proponendo loro fondatissime e personali traduzioni e interpretazioni (gli slanci rivoluzionari, l'ambiguo anticristianesimo, le allucinazioni, la vie de bohème, l'omosessualità, le droghe). Gli anni che viviamo non sono ancora quelli adatti a un nuovo Rimbaud, ed era forse inevitabile il rinvio ad altra data di una revisione interpretativa.
Un discorso a parte merita invece la traduzione di Cosimo Ortesta. Come davanti a ogni traduzione seriamente affrontata, si ripropongono i problemi dell'intertestualità traduttiva, che molti praticano senza ammetterlo in mancanza di tutela dei diritti sul testo tradotto; ma in questo caso la tradizione è riuscita quasi sempre a divenire buona traduzione.
Dimenticando volutamente la disattenta e spesso inutilmente provocatoria traduzione di Dario Bellezza (Garzanti, 1977), le più influenti traduzioni italiane delle poesie di Rimbaud sono quelle di Ivos Margoni già citata e quella di Diana Fiori (Mondadori, 1975). A queste inevitabilmente si rifà Cosimo Ortesta con qualche affinamento e risultati quasi sempre brillanti.
Si prenda ad esempio "Mémoire". È una poesia dal quadro mosso e imprevedibile, una sontuosa e fluida allucinazione ottica, quasi un film a colori fatto della giustapposizione di mobilissimi piani sequenza, dove l'unico elemento strutturante dell'ampio e pittorico svolgimento sulle due coordinate tematiche acqua e colori, è senza dubbio lo sguardo, l'occhio fuori campo e fuori testo che sembra implicare fin dall'inizio un inespresso je pois (io vedo). Al problema posto da tale organizzazione del testo Ortesta risponde accentuandola: "[...] Hélas, Lui comme / mille anges blancs qui se séparent sur la route, /s'éloigne par delà la montagne!Elle, toute/froide, et noire, court! aprés le départ de l'homme!". "[...] Ahi, Lui, / Così si separano mille angeli bianchi sulla via, / Di là dalla montagna si allontana! Lei, tutta fredda, / E nera, ecco, corre! e l'uomo se n'è andato!"; e proponendo talora spostamenti ed enjambements nuovi e musicalmente riusciti: "Jouet de cet oeil d'eau morre, le n'y puis prendre, /o canot immobile! oh! bras trop courts! ni l'une / ni l'autre fleur: ni la jaune qui m'importune, /là ni la bleue, amie à l'eau couleur de cendre." "Deriso da quest'occhio d'acqua cupa, oh immobile / canotto! oh! braccia troppo corte! mi sfugge l'uno / e l'altro fiore: il giallo, là, che m'importuna, / L'azzurro, che ama l'acqua cinerina."
Tutte le poesie tradizionalmente dette "Derniers Vers" e qui raccolte nella sezione V. 1872 sono tradotte con eleganza ed accuratezza, con le inevitabili eccezioni di qualche momento più debole, come nel refrain di L'éternité: Dite est retrouvée. / Quoi? - L'Èternité. / C'est la mer allée/Avec le soleil", dove all'ambiguità del "Che?" viene preferito un "Chi lo sa?" e alla semplicità del "È il mare andato / Con il sole." viene preferito un senz'altro meno felice: "È il mare che s'invola / Con il sole". Ancora nella stessa poesia, Ortesta traduce "Le Devoir s'exhale / Sans qu'on dise: enfin." con "Il Dovere si esala / E nessuno che dica: finalmente" come trascinato dall'esigenza di rendere presente un "altro" nel testo, un qualche destinatario interno già preannunciato dal "Chi lo sa?" del ritornello. Anche nell'ottima traduzione di Larme, il tradurre l'avverbio di tempo "Or!" con un colloquiale "Vedi" sembra andare nella stessa direzione: l'inserimento più intensamente partecipante del "tu", del lettore nel testo.
Buona la traduzione di molti dei versi giovanili; in particolare quella di "Sensation* e ancor più quella di "Le dormeur du val" dove, con alcune felici intuizioni e dei semplici spostamenti sintattici, Ortesta ottiene risultati di lieve convincente musicalità: "È un verde fossato dove canta un ruscello / Pazzo intrecciando alle erbe i suoi stracci / D'argento; dove il sole, dall'altera montagna, / Risplende: violoncello spumoso di raggi.// Un ragazzo soldato, bocca aperta, testa nuda, / Affondata la nuca nel fresco crescione azzurrino, / Dorme; sotto le nubi, disteso nell'erba, /Tutto bianco nel letto verde invaso di luce. // Dorme coi piedi negli iris. Ha un sorriso / Di bambino malato, assopito: / Cullalo tu, Natura, scaldalo: ha freddo. // Ai profumi non tremano più le narici, / Dorme nel sole, la mano sul petto / Calmo. Due buchi rossi a destra, ha nel costato". Per una volta, l'indispensabile presenza del testo a fronte non serve alla lettura comparata fra originale e tradotto - il testo in italiano ha una sua autonoma magia - bensì a constatare i pregi del lavoro del traduttore, tra i quali ci sembrano notevoli i sonori enjambements non tutti presenti nei testo francese, il commovente "Un ragazzo soldato" per "Un soldat jeune" e quel "Ha un sorriso / Di bambino malato, assopito" per "Souriant comme/ Sourirait un enfant malade, il fait un somme".
Anche nella dura prova che è tradurre "Le bateau iure", Ortesta ottiene buoni risultati. Non rifiuta la creazione di giochi metro-sintattici: assonanze, rime, qualche verso regolare per numero di sillabe e cesure, e ci regala una rara fluidità quasi una liquidità di lettura che ben si addice alle caratteristiche da discesa nel Maelstrom del testo di Rimbaud. E ben venga che la comprensione del testo è più ardua: a compiti esplicativi avrebbero dovuto provvedere note e commento che sono invece in questo caso, come in realtà nell'edizione tutta, assai poco d'aiuto.

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Conosci l'autore

Arthur Rimbaud

1854, Charleville

È stato il capofila dei poeti maledetti, definito anche il “poeta visionario”.Nasce in una famiglia borghese insieme ad altri quattro fratelli; dopo la nascita dell'ultima figlia il padre, già poco presente a causa dei suoi doveri militari, abbandona la famiglia ritirandosi a Digione. Arthur ha solo sei anni e quest'episodio segnerà tutta la sua vita.Educato dalla madre, e a scuola, secondo gli schemi più tradizionali, emerge per la straordinaria precocità intellettuale e inizia a comporre versi già dall'età di dieci anni.A sedici anni inizia a rifiutare violentemente tutti gli schemi secondo cui era stato educato, fuggendo continuamente di casa: una delle prime fughe verso Parigi, nel 1860, coincide con la stesura del suo primo...

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