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La rinnovata collana dello "Specchio" ha la bellissima idea di presentare in quarta di copertina un autografo dell'autore. Leggiamo dunque quello dell'ultimo libro di Biancamaria Frabotta, La pianta del pane: "Tu non sai quel che dici, anima mia / che ardi in una scatola di sabbia. / E nondimeno parli, e fai / come il suggeritore turbolento / che lascia il riserbo delle quinte / e recita al chiaro la sua parte". Titolo, scopriamo all'interno, Anestesia.
La breve lirica sembra obbedire al nuovo imperativo di "chiarezza" espressiva indicato in una delle prime poesie, niente di meno che un mutamento di stile ("Mio marito diffida delle cose oscure. / Così, per amor suo, io cambierò stile / e per lui terrò in serbo cose chiare"). Ma: in una scatola di sabbia? Com'è possibile, non cenere ma sabbia, la sabbia che spegne ogni fuoco. Eppure è là dentro che arde l'anima, sepolta, ma non sepolta, visto che arde, ossimorico sé che appare staccato dal Sé come nelle composizioni cavalcantiane, anima cui leopardianamente ci si rivolge in colloquio, col tu: mio cuore, tu non sai quel che dici...
E qui spunta un sorriso, come quando ci si rivolge a un giovane troppo irruento e immemore della sua situazione reale, a un Fabrice Del Dongo, un po' costernati e un po' rallegrati dal suo ardire: tu non sai quel che dici (per inesperienza, per gioventù di passione), anima mia, che ardi nella sabbia... Anzi, "in una scatola di sabbia". Come, in una scatola? Come quegli animaletti che si portavano a casa dalla spiaggia, granchiolini, paguri, come i grilli nella loro gabbietta, così arde sotto la sabbia, nella sua scatola, l'animula parvula blandula del poeta. E spunta il sorriso per la sua petulanza, è un'anima petulante, che non tace, anzi parla e fa - e qui l'enjambement ci rovescia di colpo in una inaspettata situazione-similitudine - come il suggeritore in teatro, che dovrebbe stare appunto nella sua gabbia, nella sua nicchia, come l'anima, a suggerire sottovoce gesti passioni voci e movimenti, e invece è un suggeritore turbolento, e sovvertitore e impulsivo come un fanciullo, e sotto lo sguardo affettuosamente scandalizzato del suo Sé, il suggeritore turbolento rifiuta di stare seminascosto nell'educazione e nel "riserbo" delle quinte, e viene fuori a recitare direttamente, in persona, "al chiaro" e non più in negativo, la sua parte. Basta col buio delle quinte! Ma: altro paradosso, qual è la parte del suggeritore? Tutte le parti sono la sua parte.
La leggerezza espressiva contiene il paradosso: si tratta in fondo di due terzine endesillabiche calanti (11-10-9 la prima e 11-10-10 la seconda), con un avanzare del verso a risucchio ed espansione, a ondate, che caratterizza il ritmo di Biancamaria Frabotta. E sono legate da quasi rime (mia:sabbia:fai, e turbolento:quinte:parte), nonché da una fitta presenza di rimandi fonico ritmici (in verticale ardi:parli:riserbo:parte; e ancora sai:fai ecc). Armonie sapienti che collocano questa poesia nel solco del classicismo novecentesco e del suo modo di sostituire le forme chiuse con un libertà che comprende in sé anche una servitù. Un modo che richiede una dura officina giornaliera: una naturalezza che è tale grazie all'artificio che la precede.
La nuova maniera di Biancamaria Frabotta (con la dedica coniugale che abbiamo visto), si apre dunque a un modo nuovo, comunicativo e ironico al tempo stesso, abbandonando (ma non del tutto) certe impervie chiusure dei libri precedenti. Il poeta modula la sua materia entro una forma che allude alla grande tradizione metrica del classicismo novecentesco, in modo moderno e libero, ma molto presente (la metrica, dice l'autrice, è perimetro al vivere, contro le sabbie mobili del vissuto): in una poesia che è insieme poesia di pensiero e di emozione. E qui il classicismo, per dirla con Fortini, ha funzione di figuralità morale.
Si tratta infatti di un canzoniere coniugale (e questa è novità assoluta nel panorama attuale) ma anche parentale, e anche civile, radicato nel proprio tempo e nelle proprie radici: una poesia di affetti e di ascolto. Una poesia che rifiuta il lirismo, "il nero / monosillabo dell'io", e che invece nutre in sé, nutrendosene al tempo stesso, il linguaggio della poesia, "questo futile idioma" - che è la sua pianta del pane. Se l'io appare, è sempre in prospettiva, estraniato come l'anima di cui sopra, è l'indomita Bradamante col suo pennoncello bianco: ma più spesso è in mezzo agli altri, magari nell'amore coniugale nel sonno "mano nella mano, la vita cinta / come per una danza, mentre l'altra / vita preme ai cancelli del rimosso / e li piega. Entrambi sul fianco sinistro. // L'alba li sveglia un poco più fratelli".
O ancora è parte di un "noi" che soggiace, come tutti, all'incomprensibilità della storia e dei Segni del cielo, in questi tempi di guerre guerreggiate. I segni del cielo è ispirato a due versi delle Georgiche, sibillinamente presaghi delle guerre di oggi ("Mai dal cielo sereno caddero in così grande numero / i fulmini né tante volte arsero losche comete"): e la poesia si chiede, allora "chi li raccoglierà laggiù / dove i fulmini si inseguono / i miti cespi mondati ancora crudi / e vuoti al mezzo, i rami / del verde annichilato, il tronco / costretto in ginocchio / come uno sparato alla nuca...". I miti cespi, la mitezza dei gesti quotidiani, invocata ed evocata, anch'essa, come riparo e tetto contro la follia, dello sparare alla nuca, in ginocchio, a uno di noi.
Biancamaria Frabotta è tutta intera à sa proie attachée, il suo linguaggio. Come per gioco, o per un suo infallibile istinto, l'autrice apre delicatamente le parole, e dalle fessure sgusciano fuori altre e diverse parole, etimologicamente affini ma spesso invertite di senso, che vogliono dire altro e danno aria e spazio alle parole e al pensiero che le sottende, e introducono una reversibilità inquietante che testimonia la reversibilità degli affetti e delle generazioni, chi era la madre ora è figlia, e chi era figlia ora è madre. Lo scorrere di temi e avvenimenti è serrato in una struttura lavorata e sapiente, in tre sezioni, solidissima, che è presente ma che non appare: così come spesso una sapiente struttura, ma non più evidente, sostiene anche le singole composizioni, serrate in un gioco di forma che è anche di pensiero.
L'impegno femminista delle origini si è trasformato in una poesia femminile giocata sul crinale del sublime tradizionale, con il suo controcanto prosastico: dove l'altezza del dire non esprime altro che la naturalezza del poeta, la sua imperiosa intrepidezza nella scelta delle cose chiare e della mitezza. È senza ombra di dubbio la voce di una donna quella che ascoltiamo in queste poesie, che tanto più è poeta, vorremmo dire, quanto più è poetessa. Ci sono i bocci della primavera che esplodono e c'è il pensiero, e c'è l'invenzione della propria tradizione. Una voce che accoglie la pietas verso la madre, in un pacato doloroso colloquio pieno di amore con chi sempre più immemore ancora si aggira con noi, anelli tutti di una catena di cui siamo breve parte, noi stessi tendenti a risalire verso l'arsura dell'origine, come l'anguilla: "-ma come magra erra / nell'impermeabile! / a chi lei muta parla / a quale vento va anelando / al varco di quale strada / e limite, quale valico apre / nella sua mente venata / il male innominabile? / Povera nuvola disorientata / che in tropo azzurro vaga" (L'avara sirena).
Un tocco leggero e profondo, parole che riconosciamo come nostre, per dire di noi e del nostro tempo, pubblico e privato, dove c'è posto anche per Nanni Moretti, o per Victor Cavallo, fino all'ultimo "pesciolino rapito in una rapida", il neonato memore dei corni fatati del grande Mare dei coralli e ora qui fra noi boccheggiante, "arreso alla nascita".
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