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Il pianeta degli economisti ovvero l'economia contro il pianeta
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1992
1 gennaio 1992
234 p.
9788880081258

Voce della critica


recensione di Paissan, M., L'Indice 1993, n. 1

Carla Ravaioli è una giornalista. Una qualità ai miei occhi, un difetto probabilmente per altri. Ma solo una brava giornalista - cioè una persona con il gusto di raccontare e dotata di un solido bagaglio di conoscenze sull'oggetto dell'osservazione - poteva tracciare un ritratto tanto efficace di una "corporazione scientifica": gli economisti.
"Il pianeta degli economisti", significativamente dedicato a Claudio Napoleoni, ha per sottotitolo (un po' pedante) "L'economia del pianeta". Un sottotitolo davvero esplicativo avrebbe potuto essere: "autoritratto di scienziati balbettanti".
Non so se l'autrice avesse progettato fin dall'ideazione del volume un'opera così demolitoria verso la casta dei grandi pensatori del sapere economico. Nulla, delle poche pagine che lei scrive in prima persona sottraendole alla voce diretta dei suoi interlocutori, lascia intendere un tale proposito dissacrante. Ma la sensazione aspra che le 200 pagine lasciano al lettore è di delusione profonda verso il meglio dell'intelligencija economica. Chiamati a pronunciarsi sui problemi posti dalla questione ambientale, i 28 economisti intervistati (scelti tra i più rinomati, premi Nobel compresi) danno nel loro insieme un'immagine della loro scienza a dir poco non brillante.
Non tutti nello stesso modo, ovviamente. L'arco politico e culturale degli intervistati va dal campione del liberismo Milton Friedman agli esponenti riformisti fino alla nuova scuola degli economisti ecologisti e ai neomarxisti alla O'Connor. A questa diversità di collocazione corrisponde anche una scala di sensibilità, attenzione e capacità di innovazione. Ma il messaggio d'insieme che la scienza ufficiale trasmette è di ritardo, di disinformazione, spesso di insensibilità e di chiusura di fronte a una dimensione, quella ecologica, che l'autrice giustamente ritiene debba rientrare a pieno titolo nella ricerca della scienza economica.
Carla Ravaioli, ambientalista delle prime ore, si limita, sostanzialmente, a montare le interviste secondo alcuni filoni, che corrispondono alle questioni fondamentali sollevate riguardo al destino del pianeta e degli uomini che ci vivono, e ci vivranno. Girando per il mondo, nel corso di un anno, ha rivolto ai suoi interlocutori gli interrogativi contro cui cozza ogni ecologista che intenda andare oltre la difesa dell'alberello sotto casa: grado di permeabilità dell'analisi economica al "fattore terra": natura dell'intervento politico (pubblico) sui processi di produzione e di consumo, intangibilità o meno del mercato, sostenibilità della crescita e sua relazione con la categoria dello sviluppo, consumismo senza sua relazione con la categoria dello sviluppo, consumismo senza limiti, ruolo della pubblicità, prospettive dell'innovazione tecnologica, vetustà dei criteri di calcolo del prodotto interno lordo, e così via.
Le domande di fondo, insomma, di ogni serio ambientalista. Domande alle quali buona parte degli economisti a tre stelle rispondono un po' con sufficienza, un po' con banalità e spesso con estraneità, quando non con ostilità. E anche le risposte interessate e interessanti dei pochi che mostrano di aver affrontato e di voler affrontare i problemi nuovi risultano depotenziate dal deserto fatto loro attorno dai nomi più accreditati.
La serie delle interviste si apre saggiando il grado di informazione e di sensibilità riguardo al degrado ambientale. Alcuni esempi, che da soli connotano il quadro. "Tutto ciò è un problema reale. Ma certamente sentito oltre il giusto, ingigantito" (Becher). "Non ho una conoscenza specifica del problema ambientale" (Hirschman). "Io sto con gli ottimisti" (Gerelli). "Sì, un problema serio, fatto di molti problemi" (Simon). "Io non ho letto assolutamente nulla di specifico sulla materia. Parlo come un qualsiasi uomo della strada" (Spaventa). "Non è un problema grave. Ci sono ben altre priorità nel nostro paese" (Friedman). "Il problema resta molto serio. Non si può contare sui meccanismi del mercato per risolverlo" (Samuelson). "Un problema molto grave" (Wallerstein). "Un problema chiave per il nostro futuro " (Agambeg¡ an). "Il progressivo deterioramento dell'ambiente è un guaio serio, per cui le soluzioni non sono davvero a portata di mano" (Sylos Labini). "Un problema molto grosso. Quale livello di pericolosità? Difficile dirlo..." (Leontief). Fino a Galbraith: "Se si eccettua il pericolo di una guerra nucleare, la questione dell'ambiente è la minaccia più grave per il mondo". E tralasciamo le risposte scontatamente positive degli economisti dichiaratamente ecologisti o comunque disponibili a rimettere radicalmente in discussione le categorie dell'economia standard: Daly, Bresso, Altvater, Martinez-Alier fino al grande vecchio Georgescu-Roegen.
Messi alle strette dalle domande gli economisti mettono a nudo più le loro ideologie che le loro scelte scientifiche. Basta scorrere i capitoli dedicati alla sacralità del mercato (affermata dai liberisti, criticata dai riformisti, demonizzata dagli alternativi), ai limiti della crescita, all'auspicato ridisegno delle stesse misurazioni economiche sulla base delle nuove variabili.
Nel volume della Ravaioli viene offerta a Herman E. Daly l'occasione per ripresentare la sua teoria sulla "dimensione ottimale" delle risorse e il concetto di "stato stazionario ". Un'elaborazione oggetto di molte discussioni, anche in Italia. L'ipotesi di Daly ("Steady state society", società a stazionarietà sostenuta) si fonda su una serie di decisioni pubbliche per fissare un equilibrio tra il tasso di afflusso (nascite, produzioni) e quello di deflusso (decessi, consumi), partendo dal postulato che "l'equilibrio ecosistemico del pianeta è minacciato dalla crescita illimitata". Una posizione contestata sia da destra che da sinistra.
L'autrice conclude il suo faticoso dialogo e la sua ricerca con una sorta di appello, non sappiamo quanto illusorio: "Se il potente corpo accademico degli economisti fosse meno distratto verso il problema ambiente e meno supercilioso verso l'ambientalismo; se non insistesse a identificare l'intero discorso ecologico con le scempiaggini di un indiscriminato antindustrialismo di marca verde-fondamentalista e non bollasse di catastrofismo il coraggio di guardare la realtà; se invece di difendere la scienza economica nei suoi codici più convenzionali desse il proprio contributo di intelligenza e di sapere alla elaborazione di un problema sempre più pressante e minaccioso: forse il passaggio dall'analisi critica alla messa a fuoco di linee operative non sarebbe così impossibile, e lo stesso lavoro degli ecologisti ne trarrebbe alimento e lena".
Un appello che suona come una dichiarazione di delusione e un giudizio sui suoi interlocutori.

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