Il momento di svolta nella storia della visibilità delle immagini fotografiche si colloca nell'estate 1839. Dopo che Louis Daguerre ha ottenuto il supporto istituzionale dello stato francese per il suo dispositivo per la produzione di immagini su lastra, la competizione si sposta nel campo delle immagini su carta. Sono in lizza l'inglese William Henry Fox Talbot, che si adopera per interessare alle sue "calotipie" gli ambienti scientifici londinesi, e il francese Hippolyte Bayard, con i suoi "disegni fotogenici". Con l'intento di battere sul tempo l'avversario, Bayard è l'artefice della prima esposizione pubblica di immagini fotografiche, nell'ambito di un'iniziativa di solidarietà promossa a favore delle popolazioni della Martinica colpite da un terremoto. Tra luglio e agosto di quel fatidico 1839 il "palazzo dei banditori" di Rue des Je¹neurs ospita una vendita benefica di opere d'arte, nella quale compaiono, accanto a dipinti di diversi autori, trenta positivi diretti su carta realizzati da Bayard. Contornate da una spessa cornice, le tenui immagini seppiate di Bayard dialogano tra loro e con lo spazio pittorico circostante, anticipando sin da questi esordi alcune tra le questioni-chiave che attraversano la storia delle esposizioni fotografiche ricostruita per saggi in Photoshow. Il volume partecipa dell'attuale interesse per i media di trasmissione dell'immagine fotografica, testimoniato ad esempio da Photobook. A History, opera in più volumi edita da Martin Parr e Gerry Badger; interesse reso tanto più urgente dall'apparentemente inarrestabile tendenza verso l'immateriale manifestatasi con l'avvento della fotografia digitale. Nei capitoli che scandiscono l'opera, un pool internazionale di autori ripercorre le tappe fondamentali della storia delle mostre fotografiche, con particolare focalizzazione su quelle che la curatrice Alessandra Mauro denomina "pratiche espositive": otto capitoli su undici sono infatti dedicati a mostre memorabili nel periodo 1839-2001, mentre minor rilievo in controtendenza, questa volta, rispetto all'attuale enfasi anche editoriale sul ruolo del curatore viene dedicato a istituzioni e singole personalità. Se un tratto comune è possibile distillare da tanta varietà di storie ed esempi, esso consiste con le parole di Quentin Bajac, curatore delle collezioni fotografiche del MoMA di New York intervistato in incipit nella natura "proteiforme" delle esposizioni fotografiche, collocate all'incrocio di complesse tensioni tra arte e pratiche vernacolari, tra ordinamenti cronologici e tematici, tra storytelling e montaggio, tra mostra e collezione e tra collezione e museo (per non dire dell'incoercibile tendenza dell'immagine fotografica a infiltrarsi nel territorio delle altre arti). "Preparare una mostra diceva Manet ricordato da Alessandra Mauro significa cercare alleati per una battaglia". Photoshow illustra le strategie dei curatori, ma anche le tattiche dei visitatori delle esposizioni fotografiche, inverando nel senso più pieno il significato che Michel de Certeau, nel fondamentale L'Invention du quotidien, attribuiva al termine "pratica". In questo caso è lungo il tratto che separa l'immagine di Edward Steichen, celebre curatore-demiurgo del dipartimento di fotografia del MoMA, ritratto mentre manipola la sagoma di cartone di un visitatore nella maquette della storica mostra The Family of Man (1955), dai volti dei visitatori in carne e ossa che sempre più spesso, dal secondo dopoguerra in poi, fanno capolino nelle testimonianze fotografiche degli allestimenti; e questi ultimi dai cittadini di New York che, abbattute le distinzioni tra creatori e fruitori, partecipano collettivamente, dopo l'abbattimento delle torri gemelle, all'allestimento di Here is new york. a democracy of photographs, mostra su cui si chiude il volume, in simmetrica corrispondenza con la correlazione tra mostra fotografica e trauma instauratasi con Bayard. Qui le modalità partecipative e le dinamiche delle immagini digitali presenti in rete, trasposte nello spazio reale di un negozio sfitto a Soho, diventano rituale della memoria e tessuto connettivo di una collettività lacerata. Come ricorda Sebastião Salgado, "non ci sono sogni solitari". Marco Maggi
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