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La perfetta illusione. Ermione e l'opera seria rossiniana - Marco Grondona - copertina
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La perfetta illusione. Ermione e l'opera seria rossiniana
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Descrizione


Il libro è una analisi formale dell’opera seria rossiniana dalle prove giovanili agli esiti tardi della produzione “francese” seguendo la trama di Ermione, forse quella fra tutte che seppe con maggiore coerenza conservare i caratteri della tragedia in un rapporto col modello della francese Andromaque.
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Dettagli

LIM
1996
1 dicembre 1996
356 p., Brossura
9788870961676

Voce della critica


recensione di Pacetti, E., L'Indice 1996, n. 7

Il sottotitolo di questo libro indica la trama principale della ricerca, "Ermione e l'opera seria rossiniana", e pone l'accento su un lavoro poco noto nella produzione del musicista pesarese; un'opera che meriterebbe maggiore considerazione da parte degli studiosi dopo i brillanti interventi che le dedicò qualche anno fa un musicologo della finezza di Giovanni Carli-Ballola (per parte mia confesso di apprezzarla quasi più di ogni altro lavoro di Rossini, se si esclude la produzione "francese", dotata di caratteri propri e quindi difficilmente paragonabile). La pubblicazione - contemporanea al lavoro di Grondona - dell'edizione critica da parte della Fondazione Rossini servirà, ci auguriamo, ad accrescere l'interesse per un melodramma condannato sino a pochi anni orsono a una quasi ininterrotta e del tutto ingiustificata assenza dalle scene nonché dal dibattito storiografico.
Qualche tempo fa Fabrizio Della Seta recensì sul "Giornale della Musica" gli atti del convegno di Pesaro del 1992 e constatò la presenza multipla di indagini e ricerche attorno alle condizioni pratiche da cui erano nate le grandi creazioni rossiniane; tuttavia, notando la cura positivistica con cui spesso venivano indagati i cosiddetti Realien, lamentava contestualmente l'assenza quasi totale di saggi che si occupassero della "forma" e della struttura intrinseca a quel melodramma, che ci raccontassero insomma come il "dramma" di fatto funziona. Ebbene, mi sembra che il lavoro di Grondona sia venuto felicemente a colmare quella lacuna. Anche se centrato principalmente sull'opera "raciniana" del 1819, esso analizza infatti una serie numerosa di altri passi, portando esemplificazioni dal repertorio buffo e serio, tanto da non lasciare fuori praticamente nessun titolo del vasto catalogo.
Chi vuole può attingere quasi a caso nell'"Indice delle cose notevoli" e trovare sempre un'interpretazione: per lo stile a cappella, per le formule d'accompagnamento, per i meccanismi della farsa, il significato della fuga, le strategie della "liquidazione" o il peso del "mutismo" nella musica e nell'intreccio (proprio questo è un tema fra i più attraenti del libro, volto a tracciare ipotesi di largo respiro attorno ai rapporti tra musica e parola con un'abile rivisitazione delle tesi di Nicolas Ruwet e Peter Brooks).
Le conclusioni dell'autore forse non sempre saranno da tutti condivise: egli infatti predilige con tenacia porre un problema o azzardare un'interpretazione piuttosto che accontentarsi di ovvi resoconti. Dalla lettura si ricavano così anche fitte provocazioni, e spesso - seppure con garbo - Grondona si ferma a discutere con passione le tesi di chi lo ha preceduto nella ricerca (cito fra tutte la critica a Dahlhaus e Beghelli attorno alla "struttura" universale del melodramma rossiniano, struttura cui l'autore non crede; la polemica con Questa sul finale di "Otello" e i "wagneriani"; la discussione di problemi testuali, o le tante note dedicate alla prassi esecutiva, che vorrebbe immune dagli intenti d'una malintesa "filologia": il che ci procura addirittura l'occasione per leggere una paginetta inedita di Maurizio Pollini!).
Insomma, dopo il lavoro di Isotta sul "Mosè" (1974), le pagine fondamentali di Lippmann e un lavoro di Gosset sulle "convenzioni compositive" di Rossini (che l'autore cita con giusto rilievo), abbiamo finalmente una specie di repertorio entro le cui prospettive orientare meglio la nostra comprensione del "Barbiere", del "Ciro", del "Mosè" o della "Pietra di paragone". Quando parlo di "comprensione" l'intendo in senso profondo: sin dalle prime pagine - ma direi sin dalla "Premessa", dove balza non a caso in primo piano come simbolico dedicatario la figura di un "interprete", Riccardo Muti - il libro conserva un rapporto preferenziale con l'opera "rappresentata", in costante polemica contro l'approccio puramente "testocentrico" alla partitura. Al contrario, tiene con forza a motivare drammaturgicamente le proprie analisi, tanto da discutere spesso perfino concreti problemi di regia; il rapporto del "testo" col palcoscenico è sempre presente e già il titolo - citando Stendhal - parla a vantaggio dell'"identificazione", cioè di una categoria prettamente teatrale. Un simile atteggiamento favorisce un'ottica di massima presa nei confronti dello stile rossiniano, ottimo antidoto contro tutte le tentazioni evasive che sono ancora di moda.
"Ermione" a parte, la "Pietra del Paragone" è il secondo argomento in ordine d'importanza, nel tentativo di dimostrare la correttezza del giudizio stendhaliano che la metteva prima fra i titoli della produzione buffa; proprio nell'analisi del capolavoro su testo di Romanelli, emergono con evidenza i tratti della formazione scolastica dell'autore (che insegna letteratura latina all'Università di Pisa e dunque ha dimestichezza con tradizione e calchi, col problema insomma delle "fonti"), quando individua l'ascendenza mozartiana della formula del "triplice accordo" e ne indaga i diversi impieghi nella carriera di Rossini, caratterizzandone accuratamente le tappe; o quando collegando la prima riga di "Ermione" all'esordio delle "Stagioni" di Haydn ripercorre i meccanismi della "memoria incipitaria": stabilendo infatti la derivazione dell'esordio del 1819 da quello delle "Jahreszeiten*, precisa la misura e il significato della "citazione" giustificandone l'opportunità formale e semantica.
Leggiamo in tal modo un notevole contributo alla storia - nota ma scarsamente trattata - dei "prestiti" e degli "autoimprestiti"; e siccome non è caso isolato (per rendersene conto basta scorrere nell'indice analitico la voce "Parodia", dove segnala gli episodi con la loro origine e il loro reimpiego) ci sembra che anche qui il lavoro di Grondona rimedi a una ricerca che manca a tutt'oggi, un'analisi interpretativa, cioè capace di motivare le diverse occorrenze dello stesso numero musicale e valutarle, al di là della "ripetizione", nei loro tratti peculiari (vedi in particolare i confronti tra "Aureliano" ed "Elisabetta", "Pietra del Paragone" e "Ciro in Babilonia").
Un'analisi tanto radicata dei confronti diviene talvolta analisi "contrastiva", e allora produce - per prendere due casi limite - alcune tra le pagine migliori del libro: penso al capitolo XI dove il "dilemma" di Anaìde tra amore e dovere (nel "Mosè" parigino) è contrapposto a quello di Ermione tra amore e odio: da una parte un trionfo della musica, anzi - con la famosa locuzione di Proust - della "cattiva musica", dall'altra il trionfo del silenzio musicalmente realizzato ("nel '19 - egli scrive - tutto si giocava su un'assenza di suono, mentre qui l'emozione è raggiunta dal dispiego deciso di mezzi musicali interamente ed ossessivamente praticati; e se il numero di Ermione possiede un'asciuttezza guardinga che certo non cerca la complicità dell'ascoltatore - salvo poi raggiungerlo con persuasione impareggiabile: ma questo è altro discorso - il monologo di Anaìde ci alletta con un sapore di già ascoltato cui difficilmente riusciamo a resistere"); e penso alle pagine dove la tonalità di do maggiore su cui avviene la catastrofe (allorché Oreste annunzia a Ermione l'assassinio di Pirro) viene illustrata col sussidio di "Der Zwerg", un ambiguo e misterioso Lied di Schubert dove "il modo maggiore - raggiunto spesso nella massima rapidità lecita e per poco colla successione tonica minore-dominante-tonica maggiore - coglie sempre stazioni del testo che non possono non apparire significative, legate come sono alla morte, al piacere, o peggio al piacere raccapricciante della morte".
Lo stile del libro, come si coglie forse già da queste brevi citazioni, è complesso perché animato da una manifesta partecipazione, ma chiaro, e sempre impegnato a realizzare in parole il senso profondo dei fenomeni musicali, a tradurre, talvolta col ricorso a un'espressione abilmente figurata, il valore "rappresentativo" di fenomeni ritmici, armonici o melodici. Alla chiarezza contribuiscono i numerosi esempi musicali (ne ho contati quasi ottanta, alcuni utilmente "rielaborati") che forniscono al lettore l'opportunità di controllare con i propri occhi musiche di non sempre facile reperimento.

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Conosci l'autore

Marco Grondona

Marco Grondona, allievo di Antonio La Penna alla Scuola Normale di Pisa, è impegnato da filologo classico ad applicare i criteri del mestiere all’illustrazione analitica del «testo» musicale, in particolare nel repertorio variegato e perciò spesso pericolosamente ambiguo della storia dell’opera. Dopo La perfetta illusione (un libro del ’96 sul Rossini «serio»), considera pertanto – nel bene e nel male – esemplari del suo metodo un commento puntuale alla Butterfly di Puccini (apparso su «Paragone Letteratura» del dicembre 1995) e l’esegesi sottile degli abbozzi del maestro presenti sulla singolare copia «lucchese» del libretto di Tosca (Gli appunti di Puccini per «Tosca». Un commento...

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