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Perché Stalin creò Israele - Leonid Mlecin - copertina
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Perché Stalin creò Israele - Leonid Mlecin - copertina

Descrizione


Contributo alla conoscenza della storia dello Stato di Israele attraverso i documenti originali e in parte inediti, desecretati dagli archivi del Politbjuro e del Comitato centrale del Partito comunista, dei servizi segreti e del Ministero degli Esteri dell'Unione Sovietica. Al centro della narrazione è il ruolo decisivo svolto personalmente da Stalin a sostegno della creazione e della difesa di Israele. Il volume offre, infatti, una rivisitazione della politica estera dell'URSS sulla questione mediorientale a partire dal 1917, e intreccia progetto, costituzione e difesa armata dello stato ebraico con i mutamenti della posizione sovietica nei confronti dei diversi protagonisti di quegli eventi. L'autore ripercorre con il puntiglio del ricercatore, anno per anno, a volte giorno per giorno, gli avvenimenti che hanno segnato la storia del Medio Oriente nel ventesimo secolo. Questo testo dalla lettura scorrevole è destinato, oltre che agli specialisti, a tutti coloro che si interessano della questione mediorientale, di cui sono più noti gli ultimi sviluppi che il periodo precedente alla nascita di Israele e ai due decenni successivi. (Prefazione di Luciano Canfora)
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Dettagli

2008
30 luglio 2008
216 p., Brossura
9788888249209

Valutazioni e recensioni

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Ennio Ambrosi
Recensioni: 5/5

Il titolo è un po' enfatico, però rende bene l'idea di ciò che allora avvenne e che oggi sembra quasi incredibile. Sto parlando di "Perché Stalin creò Israele" di Leonid Mlecin, appena pubblicato dall'editore Sandro Teti di Roma, con una presentazione di Enrico Mentana. L'autore è un giornalista russo che ha potuto consultare documenti degli archivi sovietici da poco desecretati. Che cosa spinse l'Urss a votare a favore della nascita di Israele? Un senso di solidarietà per i patimenti degli ebrei? In realtà solo la volontà di favorire la nascita di uno Stato potenzialmente socialista che infastidisse la Gran Bretagna in quell'area. La freddezza degli Usa, che pure votarono a favore, e che poi sarebbero diventati alleati e protettori d'Israele, venne invece dal timore di mettere a repentaglio i rifornimenti di petrolio dai grandi Paesi arabi. Ognuno insomma badò ai suoi interessi. Resta il fatto, nota l'autore, che se non ci fosse stata l'Urss di Stalin, lo Stato d'Israele non sarebbe mai nato il 14 maggio 1948. (da Corrado Augias, Il venerdì 13 Marzo 2009)

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Giorgio Liberti
Recensioni: 5/5

Davvero interessante questo libro della Sandro Teti. Un saggio che si legge quasi come un romanzo, scritto da Mlecin Leonid, uno dei giornalisti di maggiore prestigio della televisione russa, nonché apppassionato storico. Con la prefazione dello storico Luciano Canfora e un'introduzione del famoso giornalista Enrico Mentana, documenta con chiarezza come lo Stato ebraico non sarebbe sorto senza l'assenso di Stalin e approfondisce l'aspetto davvero poco noto del sostegno offerto da Mosca al neonato Israele nel 1948, soprattutto attraverso la fornitura di armi.

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Voce della critica

Il titolo, Perché Stalin creò Israele, è provocatorio e inesatto, ma con il suo libro, che raccoglie i documenti recentemente scoperti negli archivi sovietici, il giornalista russo Leonid Mlečin aiuta a cogliere la sostanza di una verità oramai rimossa: senza l'iniziativa dell'Urss lo stato ebraico non avrebbe potuto nascere. Non solo – e questo è già più noto –, perché Mosca fu la prima a riconoscere ufficialmente il nuovo paese; non solo, perché senza i cinque voti controllati dai sovietici (quello dell'Urss, dell'Ucraina, della Bielorusasia, della Polonia e della Cecoslovacchia) sarebbe mancata alla storica risoluzione 181, all'ordine del giorno dell'Assemblea generale dell'Onu del 26 novembre 1947, la maggioranza necessaria. E anche per via del sostegno fornito al movimento sionista già all'inizio degli anni quaranta: politico-diplomatico ma anche militare, all'Haganà prima, poi all'esercito israeliano nei mesi iniziali della guerra contro gli arabi, quando si consumò la drammatica pagina della Nakba, la cacciata di 760.000 palestinesi. (Le armi arrivavano, via Cecoslovacchia e Jugoslavia, in un piccolo aeroporto nella valle della Bekaa).
Quali furono i motivi che spinsero Stalin a compiere questa scelta, all'epoca per nulla scontata? I legami fra il partito di Lenin e i gruppi della sinistra ebraica (il Bund in primo luogo) erano stati in effetti stretti e antichi, così come quelli, dopo la rivoluzione, con altre aggregazioni, compreso il Partito comunista palestinese, quasi interamente ebraico. Ben Gurion stesso, a capo di una delegazione dell'Histadrut (il sindacato ebraico della Palestina), si era recato a Mosca già nel '23, stringendo legami con il nuovo paese.
L'opzione sionista apriva tuttavia un altro ordine di problemi: quello del riconoscimento di una questione nazionale ebraica rispetto alla quale anche i numerosissimi dirigenti bolscevichi di origine ebraica, tutti rigorosamente laici, si mostravano totalmente indifferenti. E così il Partito comunista bolscevico, nei primi tempi, oscilla fra la linea dell'integrazione pura e semplice e l'attenzione alla questione nazionale, cui Stalin stesso era particolarmente sensibile, anche perché georgiano. Una questione che però, nel caso della diaspora ebraica, si mostra assai più complessa. Come ebbe a scrivere Joseph Roth in un suo entusiasta reportage dall'Urss a metà degli anni trenta, "gli ebrei sono molto di più, e molto di meno, di una nazione". Non poteva avere senso – come pure Mosca tentò nel 1928 – concedere loro un territorio, il Birobidzan, infatti presto abbandonato, nonostante l'idea fosse stata inizialmente accolta assai positivamente da non pochi ebrei già residenti in Palestina, delusi dagli inglesi, alcuni dei quali affluirono effettivamente nella regione. ("Gli ebrei partono per la taigà" – scrisse entusiasta, nel 1931, il giornalista viennese Otto Heller).
Di questo intricato problema Mlečin riferisce una quantità di particolari in gran parte sconosciuti, fra cui lo scambio di vedute fra Lenin e Trockij sull'argomento, laddove l'uno minimizza, considerando l'antisemitismo un pregiudizio che sarebbe caduto con il procedere del socialismo, mentre l'altro sa che non sarà così facile e proprio per questo suggerisce al partito di evitare il rischio di nominarlo in posti di eccessiva ed esposta responsabilità. In effetti, il fenomeno resta latente fino all'ossessione staliniana degli ultimi anni, quando viene inventato il complotto dei medici ebrei. I pogrom durante la guerra civile erano stati opera dei "bianchi", e gli eccidi, durante la guerra, dei nazisti; mentre l'Urss – come riconosce ancora Roth – è il primo stato che condanna esplicitamente l'antisemitismo. E che apre le sue frontiere ai profughi delle prime leggi tedesche sulla razza, mentre quasi tutto il resto del mondo le chiude.
Il sionismo è tuttavia altra cosa: era ovvio che il regime sovietico, che negava qualsiasi pluralismo, non avrebbe mai accettato un movimento che era altro da sé, e infatti ne impedì l'espressione nel paese. E così, anche quando Stalin, a guerra iniziata, sceglie di appoggiarlo e sollecita persino la formazione in patria di un "Comitato Antifascista Ebraico", che non manca di colpire favorevolmente Weizman e gli altri dirigenti sionisti, il rapporto con questo movimento resta relazione internazionale, affidato agli ambasciatori, non legittimazione di un'iniziativa interna al paese, che coinvolga i cittadini sovietici.
Nonostante il discorso tenuto nel '47 dal rappresentante sovietico all'Onu, Gromiko, commuova la comunità ebraica mondiale, perché, per primo, il futuro ministro degli esteri da quella tribuna rivendica il diritto degli ebrei al loro stato ricordando "la sofferenza di questo popolo che ha avuto sei milioni di vittime, e le condizioni in cui versano gli scampati che vagano senza patria né tetto", a muovere la scelta di Mosca è la Realpolitik. Quanto la spinge a diventare "la sola grande potenza mondiale ad appoggiare la rivendicazione dello Stato Ebraico in Palestina" (come dirà Abba Eban) sono dunque ragioni di politica estera: il movimento sionista rappresenta una spina nel fianco della Gran Bretagna, cui preme assai più un buon rapporto con i paesi produttori del petrolio che non con quella che appare allora una fastidiosa minoranza etnica ("gli ebrei non sono mai contenti, gli arabi invece non vogliono nulla e non creano fastidi" – si legge in un rapporto sull'atteggiamento dei funzionari britannici nell'area rintracciato dall'autore). La scelta di Stalin è dunque dettata da una lucida priorità (che lo aveva peraltro avvicinato allo stesso Roosevelt): smantellare l'anacronistico impero del proprio alleato.
Ma si tratta di un'opzione dettata in qualche modo anche da affinità ideologiche: gli ebrei, innanzitutto in quanto europei, sono stati parte non secondaria della storia del movimento operaio, sono insomma "di sinistra", e chi vince nel movimento sionista è peraltro proprio l'ala socialista di Ben Gurion, che infatti non nasconde le proprie aspirazioni socialiste. Quando Golda Meir, primo ambasciatore di Israele, giunge a Mosca – racconta Mlečin – viene accolta da una grande folla entusiasta al canto dell'Internazionale.
Gli arabi sono invece di destra e "animati da meschine aspirazioni nazionalistiche". Mosca, di loro, conosce solo i governi dei re reazionari vassalli di Londra: Faruk in Egitto, Feisal in Irak, Abdullah in Giordania. I palestinesi non esistono. Non sanno chi sono. Se ci fosse stato bisogno di rimarcare l'eurocentrismo della sinistra, anche dei bolscevichi, questa vicenda è lì a illustrarlo. La Nakba non sconvolge Mosca, si direbbe che neppure ne prenda nota. Solo l'ex ministro degli esteri Litvinov intuisce lucidamente il dramma che si prepara, ma è ormai inascoltato: "La questione palestinese – osserva – non potrà essere risolta se non a scapito dei diritti e delle aspirazioni degli arabi o degli ebrei; o di entrambi".
Ci vorranno ancora parecchi anni perché l'atteggiamento dell'Urss si modifichi: i mutamenti intervenuti nel mondo arabo, con lo sviluppo del movimento nazionalista e antimperialista, e la svolta di Israele, che, certo anche per opzione politico-culturale, ma sopratutto per convenienza economica, capisce presto che è meglio rivolgersi a Washington che a Mosca. Anche su questo passaggio la documentazione di Mlečin è assai ricca. Sebbene anche lui tenda a ignorare quanto in merito ebbero a dire i palestinesi arabi. Forse perché negli archivi di Mosca non ce n'è traccia.
Luciana Castellina

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