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La Parma di Stendhal - Benedetto L. Foscolo - copertina
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La Parma di Stendhal - Benedetto L. Foscolo - copertina

Descrizione


La Parma di Stendhal è un luogo perfettamente definito della letteratura. Ma sottili, complicati e sorprendenti sono i suoi rapporti con la Parma vera, la Parma storica. Luigi Foscolo Benedetto, uno dei più grandi filologi e critici italiani del nostro secolo, lo ricostruì con mirabile perizia in questo libro del 1950, qui pubblicato per la prima volta nella versione rivista dallautore. Dalle sue ricerche apparirà in piena chiarezza come la Certosa di Parma non fosse solo «una fola ariostesca», ma una vicenda piena di allusioni e rimandi alla realtà storica di un luogo che stava a rappresentare per Stendhal «il paese dei briganti, dellarbitrio e delle avventure». Quella piccola città, con la sua piccola corte, servì poi a Stendhal come attraente pretesto per insinuare osservazioni che si riferivano piuttosto a tutta lItalia «asfissiata dal dispotismo» e, dietro di essa, allEuropa. Così Foscolo Benedetto è riuscito, con una fedeltà al dettaglio che ricorda quella di Mario Praz, a illuminare al tempo stesso unopera letteraria che non finisce di affascinarci e la realtà storica da cui è sbocciata e di cui molto abbiamo da scoprire.
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Dettagli

1991
22 novembre 1991
524 p., ill. , Rilegato
9788845908507

Voce della critica


recensione di Fiorentino, F., L'Indice 1992, n. 2

Come si conviene a un filosofo positivista e torinese, cioè di una scuola "ove - come osservò il De Lollis proprio a proposito del Benedetto - si fa tutto sul serio", Luigi Foscolo Benedetto (1886-1966) ha conservato nella critica italiana un prestigio al riparo delle mode, e però limitato prevalentemente agli ambienti universitari. Per non ricordare che alcuni dei suoi studi, a lui si deve il primo riconoscimento dell'esistenza di un'architettura nelle "Fleurs du mal" (1912), la ricostruzione dell'origine di "Salammbô" (1920), la mirabile edizione del "Milione" di Marco Polo (1928), le indagini sull'italianismo di Stendhal, tra le quali spicca appunto "La Parma di Stendhal", pubblicato la prima volta da Sansoni nel 1950 e riproposto adesso da Adelphi, assieme al ricordo devoto dell'antico allievo Riccardo Massano.
A un lettore postumo la voce di Benedetto appare dissonante rispetto al concerto idealista che s'inton• in Italia negli studi letterari tra le due guerre e oltre (anche se la lezione crociana per certi aspetti, come il ricorso al giudizio di valore, sembra non del tutto inascoltata). Formatosi alla scuola torinese di Graf, Renier, Farinelli (ma anche di Gaetano de Sanctis), egli si propone di ricostruire il processo grazie al quale si è costituita l'opera d'arte: processo le cui componenti essenziali sono da una parte le fonti, dall'altra la vita e la psicologia del suo autore. Ma la sua analisi non si limita solo all'al di qua dell'opera, alla sua genesi (accusa questa che puntualmente è stata rivolta agli studiosi positivisti come se l'opera d'arte non avesse una genesi oppure essa non fosse importante o non potesse essere indagata). Benedetto spesso riesce, grazie all'indagine dei suoi presupposti, a penetrare nell'opera stessa, interpretandone il senso più efficacemente di quanto non sia riuscito a molti critici del testo, crociani prima e strutturalisti poi, che in nome dell'autonomia della sfera estetica si sono risparmiati ricerche in archivi e biblioteche.
La genesi della "Chartreuse" coinvolge nell'analisi di Benedetto l'intero rapporto di Stendhal con l'Italia. Come si sa, l'Italia non solo illumina la vita di colui che aspirava ad esser sepolto con una lapide che lo ricordasse come cittadino milanese, essa irradia tutta quanta la sua opera. L'aggettivo italiano designava per Stendhal una serie di caratteri positivi - passionalità, autenticità, energia... - che lo opponevano non soltanto a 'francese' - paralizzato dal ridicolo, ipocrita, conformista... - ma anche a 'moderno'. I valori dell'italianità traevano origine da un'età splendida e passata (che fosse il Rinascimento o le campagne napoleoniche nella penisola) ed erano opposti a quelli che la vittoria della Santa Alleanza aveva instaurato in Europa. Studi più recenti di eminenti stendhaliani, come lo "Stendhal e il mito dell'Italia" di M. Crouzet (Corti, 1982; Il Mulino, 1991), confermando sostanzialmente la ricostruzione da parte di Benedetto dell'italianismo di Stendhal, ne mostrano tutto il pregio. Essa si avvaleva in particolare di una fonte, spesso trascurata dagli studiosi francesi (i quali non poche volte conoscono così così l'italiano): i manoscritti romani e napoletani che il console Beyle si era fatto copiare durante il suo soggiorno nello stato pontificio (poi conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi). Mentre i due volumi di manoscritti napoletani raccolgono piccanti storie cinque-seicentesche sui costumi sessuali delle maggiori famiglie della città, i dieci volumi romani contengono cronache, sempre cinque-seicentesche (che oggi definiremmo nere) di grandi esecuzioni (di "giustizie"), scritte da cronisti più o meno vicini agli avvenimenti, i quali erano interessati a illustrare la bella morte dei rei più che a raccontarne i crimini. Queste cronache sanguinose appartenevano a un vero e proprio genere, a metà strada tra il giornalismo e la storia tragica, che fiorì particolarmente nella Roma papale dove "si sapeva ammantare di teatralità, di tragico fasto, anche l'evento più ignobile".
La passione di Beyle oltrepassava tuttavia la fierezza del collezionista: egli si riprometteva, con tutta la cautela che la sua posizione presso il soglio pontificio gli imponeva, di sfruttare letterariamente questi manoscritti. Così il 1| marzo del 1837 pubblicò la storia di Vittoria Accoramboni, cui subito dopo seguì quella dei Cenci e quella della Duchessa di Paliano. Benedetto riconosce solo a "Cenci", malgrado sostanziali incongruenze, qualche valore, mentre le altre due "cronache", e soprattutto l'ultima, gli appaiono composte "senza nessuna originalità n‚ serio impegno". Stendhal, una volta abbandonata Roma per Parigi, ha perso il gusto per queste storie, e soprattutto subirebbe, secondo Benedetto, "dal punto di vista psichico, i primi contraccolpi della senescenza", che "gli strappa l'antica maschera di cinico e ne mette a nudo la fondamentale bontà". Stendhal non sarebbe più attratto da queste cronache proprio in quanto le reputerebbe (ingenuamente) reali e la realtà non lo interessa più. Aspira anzi ad evaderne. La crisi che allora attraversa nei riguardi delle storie romane trova il suo esito, oltre che nell'"Abbesse de Castro", specialmente nella "Chartreuse de Parme". Le cronache napoletane e romane da storie vere si trasformano in materiali per il romanzo alimentandolo di nomi e di fatti: in esse il narratore trova conferma alla sua immagine dell'Italia come un paese di pugnali e veleni, di energia e dispotismo.
L'abbandono delle cronache corrisponde all'interesse per un altro manoscritto romano, "L'Origine della famiglia Farnese", in cui viene raccontata la storia del fondatore della dinastia. Alessandro, protetto da una bellissima zia, amante del cardinale Roderigo Borgia, dopo una scandalosa gioventù, riesce a farsi eleggere papa col nome di Paolo III. Dall'"Origine", da sempre conosciuta come fonte eppure mai così indagata, provengono al romanzo, oltre ai ruoli essenziali del giovane scapestrato, della zia protettrice e del suo potente amante, il nome di Clelia, la prigionia e l'evasione di Fabrice, perfino parti dell'ambientazione con la trasposizione di Castel Sant'Angelo nella prigione Parmense ( è però riconosciuto anche il debito di Stendhal verso Cellini).
Benedetto prova anche a ricostruire puntigliosamente le ragioni della misteriosa e rapidissima gestazione della "Chartreuse", questione spinosissima della critica stendhaliana. Le ipotesi costituiscono tuttavia la parte meno convincente del suo studio. Proverò a riassumere. All'inizio Stendhal avrebbe inteso solo tradurre l'"Origine" in una forma non troppo dissimile da quella utilizzata per le precedenti cronache: è quanto starebbe a indicare la nota del 16 agosto del 1838 in cui enuncia il proposito di trarre dal manoscritto un romanzetto. Il 1| settembre egli scriveva invece di avere lavorato al capitolo "de la Vivandière en Alexandre": quindi presume Benedetto (come tutti gli stendhaliani che leggono nella difficile grafia 'en' e non 'ei'), all'episodio di Waterloo, in cui compare una indimenticabile vivandiera. A quest'altezza dunque il protagonista, che non si chiamava ancora Fabrice ma Alessandro come il Farnese, è divenuto un combattente della causa napoleonica. A inizio novembre Stendhal riprende le pagine scritte in settembre, le corregge e chiama finalmente Fabrice il protagonista. Decisivo per la nascita del romanzo, secondo Benedetto, sarebbe stato il superamento della storia cinquecentesca, dettato a Stendhal dal ricordo di un racconto scritto nel 1829: "Vanina Vanini". La "Chartreuse" sarebbe nata all'incrocio tra il manoscritto che racconta l'adolescenza turbolenta del futuro papa Paolo III e una ripresa, ormai non più risonante di entusiasmo patriottico, del tema politico italiano connesso a quello amoroso, già presente in "Vanina Vanini". Quest'ultima fonte confermerebbe ai suoi occhi l'intuizione già presente nella famosa recensione di Balzac al romanzo: che la "Chartreuse" è un'opera essenzialmente politica.
L'ipotesi di Benedetto si fonda tutta sul passaggio da un ipotetico progetto stendhaliano dell'agosto 1838 di traduzione dell'origine alla nota del 1| settembre che testimonia della presenza di Alessandro a Waterloo. Egli è quindi costretto a ridimensionare la perentorietà temporale dell'altra famosa nota stendhaliana datata 3 settembre in cui si legge: "J had the idea of the Char [treuse]", e secondo la quale l'idea risolutiva risulta posteriore alla trasposizione ottocentesca della storia di Alessandro e alla decisione di farlo partecipare alla battaglia di Waterloo. Quindi "Vanina Vanini" con questo cambiamento non può avere nulla a che fare. (Tra le molte ipotesi avanzate dagli stendhaliani per identificare quest'idea del 3 settembre va ricordata quella di Luigi Magnani il quale, sottovalutando forse un po' troppo il peso dell'"Origine", ha sostenuto che essa consistesse nel progetto di usare un'altra fonte, i "Mémoires" del cardinale di Retz, come modello della vita di Fabrice).

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