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Descrizione


I modelli interpretativi delle dinamiche politiche italiane più diffusi negli anni Ottanta hanno iniziato a mostrare i propri limiti. L'analisi sistemica, efficace nell'analizzare la staticità del nostro sistema e nel formulare proposte di ingegneria costituzionale, sembra poco adeguata a rendere conto dei cambiamenti politici che hanno sconvolto la geografia elettorale, provocato il crollo dei partiti, favorito l'emergere di nuove forze politiche. Le tre parti che compongono il volume presentano i contributi di autori che da decenni riflettono sulle trasformazioni della struttura della società italiana e che in questa sede propongono categorie e chiavi di lettura per ripensare il rapporto tra società e politica in Italia.
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Dettagli

1996
1 dicembre 1996
Libro universitario
288 p., ill.
9788843004942
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Indice

Introduzione / Parte prima: Classi sociali e azione collettiva in Europa / La politica senza classe', di G. Esping-Andersen / La rivolta dei capelli grigi. Il caso italiano e francese, di A. Baldissera / Parte seconda: Paradossi della società italiana / L'isolamento dello spirito civico, di L. Sciolla, N. Negri / Dinamismo privato e disordine pubblico, di C. Trigilia / Parte terza: Dimensioni politiche del cambiamento sociale / Cambiamento sociale in tempi di cambiamento politico, di A. Bagnasco / Cetri emergenti, aree territoriali e mobilitazione politica, di M. Paci / Vecchio e nuovo nella transizione italiana, di A. Pizzorno.

Voce della critica


recensione di Zincone, G., L'Indice 1997, n.10

"Luoghi comuni su un luogo (non) comune". Un titolo del genere renderebbe abbastanza bene l'idea di quel che tiene insieme i saggi raccolti nel volume curato da Nicola Negri e Loredana Sciolla. Un pezzo del filo sottile che li unisce consiste, infatti, nel tentativo di smentire tesi abusate sul sistema politico italiano.Quasi tutti gli autori si applicano a mettere in questione non solo i giudizi e i risultati delle ricerche, ma anche i concetti, gli strumenti, i metodi utilizzati per capire il nostro paese. La seconda parte del filo comune e anche del nuovo titolo che suggerisco consiste in un interrogativo che percorre un po' tutti i saggi: "Ma l'Italia non sarà, alla fin fine, un luogo comune, un posto come tutti gli altri o per lo meno non così stravagante come finora ci hanno voluto far credere?". La risposta alla domanda non è unanime, non tutti i sociologi autori del volume sono disposti a buttare a mare la collaudata bussola dell'eccezionalismo italiano, anche se qualcuno di coloro che sono convinti della netta diversità italica è comunque disposto a rinunciare al "pendant" classico dell'eccezionalismo: il catastrofismo. Diversi sì - sostengono costoro -, ma non in tutto peggiori.
In questo libro il giudizio sul carattere più o meno positivo dei tratti distintivi del nostro sistema politico è quasi sempre tarato sulla sua capacità di affrontare le trasformazioni in corso, in particolare quelle indotte dalla globalizzazione. Quelli che ieri erano difetti si trasformano oggi in vantaggi o almeno in ammortizzatori del disagio e del conflitto. Questo giudizio basato sul confronto e sulla comparazione allarga l'attenzione dal caso italiano alle dimensioni globali del mutamento. Così Esping-Andersen prende l'avvio dalla ormai classica osservazione di un fenomeno generale, del fatto cioè che gli attuali modi di produzione generano disoccupazione ed esclusione, e passa poi alla comparazione e al caso italiano.L'impatto del fenomeno si può attutire - come è stato fatto in Svezia e in Danimarca - attraverso politiche attive della piena occupazione centrate sul settore pubblico, oppure - come è stato fatto in Inghilterra e negli Stati Uniti - attraverso la creazione di quote crescenti di "lavori sgradevoli"; la concentrazione statica delle fasce deboli in queste attività implica però una divaricazione dei redditi. I grandi obiettivi della sinistra - mobilità sociale, attenuazione delle sperequazioni e alta occupazione - si presentano oggi come alternative, in antitesi tra loro.
La differenza tra paesi "socialisti" scandinavi e paesi "liberisti" anglosassoni è che nei primi molti di questi lavori "sgradevoli" sono nel settore pubblico e quindi non sono sottopagati: almeno la forbice dei redditi lì non si è allargata. L'Italia non è stata né abbastanza virtuosa come le sorelle scandinave, né abbastanza spregiudicata come i cugini anglosassoni, non ha seguito nessuna delle due vie e quindi dovrebbe trovarsi - come i paesi dell'Europa centrocontinentale - in preda a forti tensioni sociali e politiche. "I dati recenti della Francia, della Germania, dei Paesi Bassi e del Belgio indicano una possibile nuova polarizzazione in cui i perdenti della modernizzazione - secondo l'espressione di Kolinsky - favoriscono in modo crescente i partiti razzisti e di estrema destra". In Spagna e in Italia questo non accade - secondo Esping-Andersen - perché il peso della disoccupazione è concentrato sui giovani, che lo accettano a causa dei più forti legami familiari. A me pare che la spiegazione sia più politica che sociale: la destra di Alleanza Nazionale ha per ora interesse alla moderazione, ha flirtato con la rivolta in passato e non è detto che non torni a farlo in futuro. Comunque, in questo libro, i nostri difetti, più che come difetti capaci di trasformarsi in virtù, appaiono e sono spesso presentati - come nel caso della condizione di illimitata minorità dei figli - come perversioni utili. Non tutte ovviamente.
Quelle rilevate da Baldissera nel sistema pensionistico appaiono utili soltanto per il ceto politico che le ha prodotte e per le categorie che ne godono. Tuttavia - ci dice l'autore - riescono a non risultare ancora scandalose per il buon motivo che non si vedono, fanno parte di una redistribuzione opaca. Il saggio di Baldissera, in compenso, è estremamente efficace nel farle vedere, nel suscitare scandalo: la redistribuzione di redditi operata dal sistema pensionistico italiano tra categorie di lavoratori, tra regioni, tra generi e soprattutto tra generazioni appare proprio come l'autore ce la presenta: spaventosamente iniqua.Suggerirei a Baldissera, se vuole valutarla correttamente, di inserirla nella costellazione di ingiustizie di cui fa parte. Anche se prima la riforma Amato e poi quella Dini hanno eliminato il premio alle carriere più dinamiche utilizzando come base per il calcolo della pensione l'intero arco professionale o le contribuzioni reali, resta tuttavia l'iniquità di carriere maschili più dinamiche, di salari maschili spesso erraticamente superiori. Do un assaggio delle decisioni folli ricordate in questo saggio: "Le pensioni di invalidità erano concesse dall'Inps - almeno sino al 1994 - sulla base di un giudizio discrezionale riguardante le condizioni socio-economiche dell'area di residenza del richiedente". Anche questa decisione andrebbe collocata in una costellazione di sperequazioni territoriali.Si osservi però che le regioni centrali risultano molto abili nel procurarsi pensioni di invalidità e si sfata così il luogo comune di un Sud assistito e di un Centro sempre ricco di virtù civili.
Ma Baldissera non guarda "in primis" ai conflitti territoriali, vuole segnalare invece (come pure fa Esping-Andersen) un conflitto non esploso: quello tra generazioni. L'intreccio fra trasformazioni di classe e interessi territoriali è piuttosto il tema principale dei saggi di Trigilia, Bagnasco e Paci. Trigilia vede accentuarsi la dipendenza economica del Sud dai trasferimenti pubblici in un momento in cui - a causa dei vincoli di bilancio, dei parametri di Maastricht, della competizione internazionale - la politica dei trasfe-
rimenti diventa sempre meno praticabile. Egli suggerisce di guardare anche agli svantaggi dei nostri supposti vantaggi competitivi per una seria attività di redistribuzione e di governo dell'economia. Così il nostro tessuto di piccole imprese, collocate soprattutto in certe regioni, costituirebbe un'ulteriore tentazione ad abbandonare le grandi mediazioni, perché queste hanno bisogno di attori compatti, di centri decisionali; ugualmente gli ammortizzatori sociali offerti alle grandi imprese hanno costituito un ulteriore incentivo a tagliare occupazione. Ancora più di Trigilia, Bagnasco guarda agli effetti politici della trasformazione economica. Egli osserva l'emergere di una nuova borghesia produttrice di beni materiali, di servizi alle persone e alle imprese (informazione, comunicazione, software, pubblicità), e rileva la sua variabile diffusione territoriale. Altrettanto eterogenea appare la distribuzione sul territorio delle piccole imprese industriali. Entrambe queste borghesie, a differenza di quella che si costituisce attorno alle grandi imprese e ai grandi istituti finanziari, divengono prive di rappresentanza dopo il crollo dei partiti di centro-sinistra. Gli immateriali sceglieranno Forza Italia, le piccole imprese (operai inclusi) la Lega. Il concetto di borghesia immateriale è un po' confuso e stiracchiato, questo Bagnasco lo ammette, ma l'osservazione, già avanzata da Deaglio quando segnalava come carattere della postmodernità gli investimenti in capitale umano, è comunque interessante. Convince meno accomunare produttori e consumatori di beni immateriali: casalinghe teledipendenti e indipendenti professionisti del software. Il voto per Forza Italia è composito e si spiega anche in termini di assicurazione sul fatto che il nuovo non sarà poi così nuovo.
In questo saggio e, più in generale, in questo libro sono migliori le ipotesi generali e le osservazioni specifiche, meno riuscito il raccordo tra le due.Così Bagnasco è molto acuto nel formulare ipotesi di largo respiro, ad esempio quando vede la differenziazione e le sue conseguenze politiche anche all'interno della classe operaia: "La crisi del lavoro semplice e standardizzato porta anche la fine di una grande classe omogenea"; o quando osserva i risvolti politici di un processo che potremmo definire di disarticolazione, decentramento e alleggerimento non solo produttivo, ma decisionale: "La possibilità di un partito di massa si basa su una società relativamente semplice o semplificabile nelle sue espressioni con relativa facilità".
Paci condivide con Bagnasco l'ipotesi che evoluzione delle forze di produzione ed evoluzione dei rapporti di produzione si siano mosse in sostanziale sincronia: nuove tecnologie, nuovi modi di organizzare la produzione hanno portato con sé anche nuove relazioni industriali e di lavoro; la sfasatura è piuttosto tra questa parte dell'attività sociale e l'attività politica: le rappresentanze sindacali e i partiti tradizionali entrano in crisi, quelle nuove si stanno forse consolidando. La riformulazione delle tesi di Bagnasco e Paci in termini evidentemente marxisti è mia; non so se gli autori la condividerebbero, ma a me pare che funzioni.Paci, nel suo saggio, cita Bagnasco: "Le forze che premono per l'uscita dal fordismo sono anche influenti in modo più o meno diretto sul cambiamento politico"; e continua lui stesso: "Il successo di alcune forze politiche può essere visto allora come un indicatore dei mutamenti sociali sottostanti e della capacità 'egemonica' di determinati ceti emergenti". Paci rileva le diversità strutturali tra Nord-Est e zone rosse, traEmilia e Veneto, ad esempio. Ci sono più terziario e più imprese extra-agricole, maggiori tassi di attività lavorativa tra le donne, più anziani nella prima regione rispetto alla seconda. Mentre il Veneto diviene sempre più simile alla Lombardia, Marche, Abruzzo e Molise si avvicinano all'Emilia e alle regioni rosse storiche.
Paci passa poi alla spiegazione del mutamento politico, di cui sarebbe responsabile la sfasatura tra efficienza economica ed efficienza amministrativa: a cambiare maggioranze sono le regioni in cui il rendimento amministrativo - come era stato rilevato dalla ricerca svolta da Robert Putnam tra il 1970 e il 1985 - "non era più all'altezza del livello di sviluppo raggiunto: si era formato cioè uno scarto o un 'ritardo' tra il funzionamento delle istituzioni regionali e i mutamenti intervenuti nell'economia e nella società civile. La vittoria del centro-sinistra in queste tre regioni alle elezioni regionali del 1995 era dunque - da questo punto di vista - un risultato annunciato". Mi pare ancora una volta che il raccordo tra un'analisi riuscita di importanti trasformazioni economiche, da una parte, e l'interpretazione di effimeri risultati elettorali, dall'altra, funzioni poco. "La percezione sempre più chiara dello scarto tra la forza raggiunta da questa neo-borghesia locale e la sua debolezza politica" spiegherebbero anche la mobilitazione antigovernativa della Lega. Ma siamo certi che la discrepanza tra struttura e sovrastruttura prenda definitivamente nella costa adriatica la tranquilla via dell'Ulivo? E se, per una manciata di voti, la prossima volta vincesse il Polo?Sul fatto che il voto democristiano, in Molise e in Abruzzo, abbia scelto il Partito Popolare hanno influito mutamenti strutturali? Proporrei di dubitarne.
La ricerca di Putnam, "La tradizione civica nelle regioni italiane", che dimostra una relazione tra efficienza amministrativa e tassi di civismo aleggia su tutto il volume, ma diventa oggetto specifico di critica solo nel saggio di Sciolla e Negri. Qui la logica di tutto il libro si ribalta: non si tratta più di valutare con strumenti nuovi il carattere più o meno normale del nostro sistema politico, ma si cerca di utilizzare il carattere più o meno normale del nostro sistema politico per valutare l'inadeguatezza di vecchie ipotesi, di vecchi strumenti e per proporne di nuovi.Il vecchio strumento è il concetto di cultura civica, che è stato costruito secondo una prospettiva unilaterale, come il caso italiano dimostra.Gli autori distinguono tre aspetti della morale pubblica: il civismo in senso stretto, inteso come rispetto delle regole (pagare le tasse, non sporcare le strade, non scontrarsi con la polizia), il relativismo morale (accettazione del divorzio, dell'aborto, dell'omosessualità), l'anticonformismo (tolleranza per il consumo di droghe leggere e per lo scontro con la polizia, apprezzamento di valori quali l'immaginazione, l'altruismo).Non so quanto questa specifica divisione sia convincente e quanto lo sia la denominazione (il relativismo morale prevederebbe semmai la comprensione di culture che non accettano il divorzio o l'aborto). Sarebbe stato forse opportuno distinguere tra legalità, partecipazione, tolleranza e contestazione. Quel che conta è che il pacchetto un po' conformista della cultura civica proposta da Almond e Verba e poco criticato da Putnam sia stato finalmente messo in discussione. Sciolla e Negri hanno inoltre il merito di aver dato un seguito empirico alle loro tesi. Se le "virtù pubbliche" possono presentarsi separate, diversi sono i percorsi. Rispetto dell'autorità e della legge non implicano necessariamente partecipazione. Il famigerato "familismo" può accompagnarsi all'identificazione europea, allo spirito di tolleranza e a forme di partecipazione. Alla partecipazione si può arrivare anche attraverso identità cosmopolite e valori anticonformisti.
In chiusura del volume è stato collocato il saggio di Pizzorno, forse perché riprende molti temi presenti negli altri sottolineandone maggiormente i risvolti politici.Si parte dal concetto di "capitale sociale" di Coleman, un patrimonio di relazioni interpersonali, che in Italia però - nota Pizzorno - non si organizzavano solo nella famiglia, nella chiesa e nell'amicizia, ma anche nei partiti. Quest'ultima rete si è fortemente indebolita con esiti negativi e positivi: la minore distinguibilità tra i soggetti ha consentito l'alternanza al governo, l'erosione dei vecchi aggregati ha permesso (più al Nord che al Centro-Sud) il sorgere di nuove più labili organizzazioni, di più giovani classi politiche. La spinta innovativa si arresterà, assisteremo a restaurazioni? E - se continuerà - avrà esiti centrifughi o costruttivi? Su questo processo Pizzorno sospende il giudizio, e noi con lui.

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